AFGHANISTAN

Dal "Grande Gioco" all'operazione "Enduring Freedom" (1829 - 2021)

Parte 1

 

Il «Grande gioco»
(
The Great Game)

Il «Grande gioco» è il termine  utilizzato per definire il conflitto, caratterizzato soprattutto dall'attività dellediplomaziee dei e dei servizi segreti, che contrappose l’Impero britannico e quello russo in Medio oriente ed in Asia centrale nel corso di tutto l’Ottocento (e parte del Novecento). L'origine del termine è attribuita proprio ad un ufficiale inglese, Arthur Conolly, che lo utilizzò per primo nel 1829.

Sebbene all'inizio del secolo Gran Bretagna e Russia fossero state alleate contro la Francia di Napoleone Bonaparte, ben presto tra le due potenze si scatenò la lotta per il controllo degli immensi territori tra i confini asiatici dell’Impero Russo e l’India britannica, che fino ai moti indiani del 1857 (cosiddetti Indian Mutiny) fece capo alla Compagnia delle Indie e poi appartenne direttamente alla corona britannica.

 

Russi e inglesi in Asia centrale

L'obiettivo dei russi, che erano alleati della Persia, era quello di far guadagnare al loro impero nuovi territori verso est e verso sud, con la conseguente apertura di nuovi mercati ed eventualmente anche di uno sbocco diretto Oceano Indiano: in particolare nel mirino dello zar c'era, o quanto meno pareva esserci, l’India britannica.

Per parte loro gli inglesi avevano l'obiettivo di creare un cuscinetto tra Russia e India a difesa di quest'ultima, alleandosi o, se necessario, conquistando gli emirati dell’Afghanistan (in particolare Kabul e Herat, a lungo minacciata dai persiani) e i khanati del Turkestan (in particolare Khiva e Buchara, a lungo retta dal dispotico emiro Nasrullah Khan.

Dal punto di vista britannico, l'espansione dell'impero russo in Asia centrale minacciava il "gioiello della corona" dell'impero britannico, l'india. i britannici temevano che l'Afghanistan sarebbe diventato il punto di partenza per un'invasione russa in india, dopo che le truppe dello zar avevano sottomesso, uno dopo l'altro, i khanati dell'asia centrale (Khiva, Bukhara, Khokand ).

Sono questi i motivi che nel 1838 spinsero gli inglesi a lanciare quella che fu poi chiamata Prima guerra anglo – afgana.

Gli inglesi tentarono di imporre un governo fantoccio un sotto Shah Shuja della dinastia Durrani (foto). il regime fu di breve durata, e insostenibile senza l’appoggio militare britannico.

Dal 1842, gli inglesi subirono continui attacchi dai civili per le strade di Kabul e la guarnigione britannica fu costretta ad abbandonare la città. 

 

 

 

Cause della Prima guerra anglo- afgana (1838 – 1842)

La prima guerra anglo-afgana (1838-1842) fu combattuta tra l'esercito indiano britannico in alleanza con i sikh ancora indipendenti sotto la guida di Ranjit Singh e i sovrani di Kabul e Kandahar della dinastia dei Barakzai. il suo scopo era il rovesciamento di Dost Mohammad Khan e il restauro sul trono dell'ex capo della famiglia di Sadozai Shuja Shah. La posta in gioco era anche il mercato alimentare di tutta l’Asia centrale. La Russia cercò di impadronirsi di Khiva nella speranza che sarebbe diventato il centro di tutto il commercio e avrebbe minato la superiorità commerciale di coloro che dominavano il mare.

Dal 1829, gli inglesi ritenevano necessario estendere la loro influenza all'Asia centrale prima che arrivassero i russi. Di fronte a tale minaccia il Foreing Office e l’East India Company, concordarono sul fatto che la soluzione migliore era creare due o tre principati afgani indipendenti (rompendo l’unità dell’Afghanistan unito per la prima volta nel 1746, sotto l’Impero Durrani) - clienti e amici – a Herat, Kandahar e Kabul, che potessero servire come bastione difensivo avanzato della valle dell’Indo. Questo avrebbe portato anche ad estendere il raj indiano.

In quegli anni, la Russia aveva esteso il proprio controllo indiretto sulla Persia, di cui appoggiava le mire espansionistiche nella regione di Herat, possibile punto di partenza per un’ulteriore avanzata verso Kandahar, Quetta e l’India; contemporaneamente l’East India Company (potente società di mercanti londinesi che acquisterà il monopolio del commercio nelle colonie inglesi nell’Oceano Indiano e avrà anche funzioni amministrative ed un suo esercito) aveva stretto alleanza con il maharajah sikh Ranjit Singh, signore del Punjab, per garantire dei propri confini nordoccidentali. L’Afghanistan si veniva così a trovare sotto la diretta minaccia di due nemici storici, i persiani e i sikh del Punjab, spalleggiati dai più grandi imperi dell’epoca; così, quando nel 1834 l’esercito di Ranjit Singh conquistò Peshawar, gli inglesi non ebbero nulla da eccepire.

La prima guerra anglo-afgana fu preparata dalla Compagnia delle Indie a supporto di uno dei vari signorotti locali che mirava ad impadronirsi del trono del khanato afghano (unito per la prima volta nel 1746, sotto l’Impero Durrani), ebbe come risultato solo quello di inimicarsi la popolazione, con un costo molto alto di soldati. Riuscì infatti ad arrivare a Kabul (capitale del khanato), sconfiggendo il Khan Mohammad Dost (foto), ma l’occupazione si rivelò difficoltosa con il nuovo governo fantoccio di Shah Shuja che necessitava delle truppe britanniche per mantenere il potere. La protezione britannica al nuovo khan sembrò, agli occhi della popolazione, diventare occupazione permanente quando i familiari dei soldati vennero invitati a raggiungere le truppe occupanti.
Questo sfociò in una rivolta delle tribù (soprattutto Pashtun) capeggiate da Akbar Khan (figlio di Dost).
I britannici si risolsero allora per il ritiro del contingente (5000 soldati, per la maggior parte indiani, e 10.000 civili). Durante la marcia invernale, in mezzo alla neve dei passi di montagna, la colonna venne ripetutamente attaccata dai numericamente soverchianti guerrieri pashtun e massacrati.

 

Seconda guerra anglo-afghana (1878 – 1880)

I decenni seguenti, oltre a scontri con la Persia, videro la progressiva espansione verso sud dei russi, fino alla nuova invasione britannica nel 1878, nota come seconda guerra anglo-afgana. Fu la seconda incursione militare inglese in territorio afghano, con l'obiettivo di contrastare l'espansione russa nel paese.

Dopo che la tensione tra Russia e Gran Bretagna in Europa si era conclusa con il Congresso di Berlino del giugno 1878, la Russia volse la sua attenzione verso l'Asia centrale. Nella stessa estate, la Russia inviò un contingente diplomatico a Kabul. Sher Ali Khan, l'emiro dell'Afghanistan, tentò invano di tenere fuori i Russi; che arrivarono a Kabul il 22 luglio 1878. Il 14 agosto, gli Inglesi chiesero a Sher Ali Khan di consentire anche l'ingresso di un contingente britannico. L'emiro non solo rifiutò di ricevere le truppe britanniche, ma minacciò di fermarle qualora fossero state inviate. gli inglesi, allora, invasero l’Afghanistan attraverso il Khyber Pass con 40.000 uomini. Sher Alì chiese inutilmente l’aiuto dello zar, il quale, evidentemente, giudicò troppo pericoloso uno scontro diretto con gli inglesi.

Sher Ali Khan  rientrò a Mazar i Sharif , dove morì il 21 febbraio 1879.

 

il Trattato di Gandamak (26 maggio 1879)

Con gran parte del paese occupato, il successore di Sher Alì, Yaqub Khan, firmò un trattato con gli inglesi che, pur riconoscendo l’indipendenza formale dell’Afghanistan, di fatto faceva rientrare pienamente il paese nella sfera di influenza britannica con una sorta di protettorato, mentre alcune zone di frontiera passarono direttamente alla corona britannica. Mohammad Yaqub Khan, figlio di Sher Ali Khan e suo successore, infatti, firmò il Trattato di Gandamak nel maggio 1879 (foto) per impedire un'invasione britannica del resto del paese. In base a questo accordo e in cambio di una sovvenzione annuale e vaghe assicurazioni di assistenza in caso di aggressione straniera, Yaqub cedette alla Gran Bretagna il controllo degli Affari Esteri dell'Afghanistan. Rappresentanti britannici si insediarono a Kabul e in altre località, il controllo britannico si estese al Passo Khybere al Passo Michni, e l'Afghanistan lasciò varie zone di frontiera e Quetta alla Gran Bretagna. L'esercito britannico poi si ritirò. Tuttavia, il 3 settembre 1879, una rivolta di Kabul condusse al massacro della missione militare , le sue guardie, e il suo personale - innescando la fase successiva della seconda guerra afgana.

 

La rivolta del 1879 - 1880

Giunta la notizia della strage, Lord Lytton – Vicerè dell’India – diede immediatamente ordine al generale Roberts di rioccupare Kabul e punire duramente I responsabili della sommossa.

Roberts introdusse la Kabul Field Force attraverso il Passo Shutargardan nell'Afghanistan centrale e occupò Kabul. Mohammad Jan Khan Wardak sollevò una rivolta e attaccò le forze britanniche nei pressi di Kabul nell’assedio di Sherpur nel dicembre del 1879 (foto), ma la sua sconfitta portò al fallimento di questa ribellione. Yaqub Khan, sospettato di complicità nel massacro degli inglesi,  fu costretto ad abdicare e al trono fu insediato suo cugino Abdur Rahman Khan. Ayub Khan, che aveva servito come governatore di Herat, si ribellò e sconfisse un distaccamento britannico nella battaglia di Maiwand nel luglio 1880 e cinse d'assedio Kandahar. Roberts comandò quindi la principale forza britannica da Kabul e sconfisse definitivamente Ayub Khan il 1º settembre nella battaglia di Kandahar, ponendo fine alla ribellione. Abdur Rahman confermò il Trattato di Gandamak. Abbandonando la politica provocatoria di mantenere un rappresentante britannico a Kabul, ma avendo raggiunto tutti i propri obiettivi, gli inglesi si ritirarono.

 

La "Linea Durand" (1893)

Il 12 novembre 1893 Abdur Rahman e l’emissario inglese Sir Mortimer Durand firmarono un trattato che, prendendo atto delle aree occupate dagli inglesi negli anni precedenti, delineava lungo un tratto di circa 2500 km, dalla catena di Sarikol al confine iraniano, il confine tra Afghanistan e India britannica. Secondo i termini dell’accordo, che fu sanzionato quello stesso mese da un durbar (consiglio di anziani), all’Afghanistan rimasero i distretti di Asmar e Bormal e il Wakhan orientale, che dava all’Afghanistan il suo unico confine con la Cina; Abdur Rahman rinunciava alla sovranità sulle tribù di frontiera nello Swat, a Bajaur, Chitral, Chageh e su parte del Waziristan, e si impegnava a ritirarsi da Chagai..Il tracciato divideva in due la popolazione pashtun, lasciandone una parte, quella che tradizionalmente gravitava verso i mercati di Peshawar, Kohat, Bannu, Tank e Quetta, nel Raj britannico. In questo modo si indeboliva il peso demografico dei pashtun rispetto ad altri gruppi etnici che vivevano in Afghanistan, minando il progetto di stato-nazione allora in via di costruzione, che era incentrato proprio sull’elemento pashtun, dominante sul piano politico sin dal Settecento. Si indeboliva inoltre il predominio dei Durrani, il clan pashtun al quale l’emiro stesso apparteneva, a vantaggio dei ghilzai.

Sono state fatte varie ipotesi sui motivi per cui l’emiro avrebbe accettato di firmare. Ad essere decisiva fu probabilmente la convinzione che l’alleanza con i britannici avrebbe aiutato gli afghani a fermare l’avanzata russa, ben più preoccupante agli occhi dell’emiro rispetto a quella inglese, che appariva di natura perlopiù difensiva. La decisione di firmare l’accordo fu facilitata dalla promessa da parte britannica di aumentare i sussidi destinati all’amir e di fornirgli armi e attrezzature belliche, che l’avrebbero rafforzato non solo contro i russi, ma anche sul piano interno, caratterizzato da furiose lotte di potere.

Gli amir successivi non misero in discussione l’accordo: nei trattati conclusi con gli inglesi nel 1919 e nel 1921, che riconoscevano l’indipendenza dell’Afghanistan, si riaffermava l’impegno a onorare il confine negoziato da Abdur Rahman, con alcune variazioni minori. Nel corso degli anni Trenta del Novento, tuttavia, sotto Zahir Shah (1933-73), le autorità centrali afghane, animate da un acceso nazionalismo, promossero la cultura e la lingua pashtun, preparando il terreno per future rivendicazioni. Negli stessi anni, si diffondeva nelle aree sedentarizzate pashtun a sud della Durand Line il movimento dei Khudai Khitmatgar (KK), che rivendicava per i pashtun il diritto all’autodeterminazione, oscillando tra l’idea dell’unione all’Afghanistan e quella della creazione di uno stato indipendente.

 

La contesa tra Afghanistan e Pakistan

Da un lato, il Pakistan sostiene di aver acquisito la piena sovranità sulle aree e sul popolo a est della Linea Durand, in quanto Stato successore dell’India britannica. Dall’altro, l’Afghanistan contesta che, al momento della firma dell’accordo del 1893, così come al tempo delle successive ratifiche del confine nel 1905, 1919 e 1921, il Paese era subordinato alla forte pressione dei governanti coloniali britannici. La nascita del Pakistan nel 1947 non ha che complicato ulteriormente un quadro già assai problematico. A seguito dell’annuncio del ritiro degli inglesi dal subcontinente e al profilarsi della partizione del territorio del Raj in due Stati distinti (India e Pakistan), nel luglio di quello stesso anno si tenne, nella Provincia della Frontiera del Nord-Ovest (Nwfp) e in alcune parti del Belucistan, un referendum che avrebbe permesso alla popolazione di determinare le proprie sorti. In proposito, Islamabad è solita sottolineare come, in quella sede, il voto della maggioranza verté sull’annessione al Pakistan, con ben 289.244 opinioni a favore a fronte di 2.874 opinioni contrarie. 

 

La Risoluzione Bannu (giugno 1947)

Tuttavia, un aspetto che non può certo essere trascurato è che, tra le opzioni date alla popolazione, non vi erano né l’indipendenza del Pashtunistan né l’annessione all’Afghanistan. Gli inglesi non potevano, infatti, permettere il concretizzarsi né dell’una né dell’altra possibilità, poiché entrambe avrebbero favorito l’esercizio da parte dell’Urss di un maggior ascendente nella regione. Pertanto, sebbene, solo un mese prima del plebiscito, l’Assemblea provinciale della Nwfp avesse espresso la propria volontà di costituire uno Stato indipendente Pakhtunkwa con la risoluzione Bannu (giugno 1947,) gli abitanti dell’area dovettero accantonare il sogno dell’indipendenza e accettare la propria integrazione nel Pakistan. Attualmente, a detta della leadership pakistana, ci sarebbero più pashtun dalla parte orientale della Durand Line che in Afghanistan. Dal canto suo, Kabul imputa questo dato al fatto che, a seguito dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan e della successiva guerra civile nel Paese, la popolazione pashtun si sarebbe ritrovata, suo malgrado, a dipendere maggiormente dal Pakistan, se non addirittura a rifugiarvisi. 

In aggiunta, la separazione delle famiglie alla frontiera sta diventando ancor più profonda, a fronte della recinzione unilaterale e della costruzione di muri sulla Durand Line in cui è impegnato il Pakistan.

 

 

Riassumiamo brevemente quali sono state le conseguenze della sconfitta di Napoleone Bonaparte e della fine dell’Impero Francese.

 

Impero napoleonico

 

 

Per ritornare ai vecchi confini o comunque per dare all’Europa un nuovo assetto territoriale e politico venne inaugurato, sotto l’invito del ministro degli esteri austriaco Metternich, il Congresso di Vienna, riunitosi il 1° novembre 1814 ed interrotto quasi subito alla notizia della fuga dall’esilio - prigionia di Napoleone. Infatti, contemporaneamente allo svolgimento dei lavori del Congresso, Napoleone nel 1815, riuscì a ritornare in Patria e istituire il Regno dei cento giorni. La coalizione antinapoleonica – alla quale si erano aggiunti nuovi stati – decisi, quindi, di accelerare le contrattazioni, ferme da mesi, sul futuro dell’Europa.

Napoleone sconfitto definitivamente a Waterloo, fu esiliato a Sant’Elena, dove morì nel 1821.

Ripreso, il congresso delle potenze vincitrici, si concluse il 9 giugno 1815.

Oltre a Austria, Prussia, Russia, Inghilterra e Svezia, a Vienna giunsero più di 400 rappresentanti della coalizione che aveva sconfitto la Francia napoleonica; ma in realtà le decisioni finali furono prese dalle potenze vincitrici; tra cui l’Impero Russo guidato dallo zar Alessandro I e lo stesso primo ministro austriaco Metternich, forse il principale promotore dell’assemblea. In quanto rappresentante dello stato “colpevole”, si trovava in una posizione delicata il principe de Talleyrand, che con Napoleone era stato ministro degli esteri, mentre con Luigi XVIII ambasciatore. Egli però, astutamente riuscì a presentarsi come rappresentante di una Francia il cui sovrano era stato destituito da Napoleone ed anche i suoi sostenitori avevano combattuto a lungo contro l’imperatore; perciò il re non doveva essere punito bensì – al pari altri sovrani rovesciati da Napoleone – al Congresso di Vienna rivendicava i suoi legittimi diritti al trono.

 

L’Europa nel 1815 (Congresso di Vienna)

 

 

Al Congresso di Vienna, venne approvato:

  • il principio di legittimità, con cui ogni sovrano tornava al suo regno, anche se tale principio non fu applicato nel momento in cui le conseguenze erano poco positive per le nazioni vincitrici;

 

  • il principio di legalità per cui il sovrano era investito dalla volontà divina;

 

  • il principio della sicurezza con cui venne avviata una politica di equilibrio fra gli stati e con il quale vennero annessi dei territori interposti, i cosiddetti stati-cuscinetto tra la Francia e gli stati confinanti in modo da garantire la sicurezza e la difesa; per esempio al regno di Sardegna venne annessa la Liguria.

Il “legittimismo” e Joseph de Maistre

Di questi tre principi, il più difficile da realizzare fu quello di legittimità. Secondo questo principio, sostenuto soprattutto dal rappresentante della monarchia francese, Talleyrand (1754 – 1838) sui troni d’Europa andavano rimessi i legittimi sovrani che Napoleone aveva spodestato; bisognava, cioè, tornare alla situazione precedente la Rivoluzione Francese e Napoleone. Talleyrand sosteneva il ritorno all’assolutismo monarchico del XVIII secolo e – riaffermando che il potere dinastico ha un valore assoluto, poiché per diritto divino è assegnato “per grazia di Dio” – pretendeva, appunto, la restaurazione dei legittimi sovrani. Per questo motivo, questa dottrina politica viene chiamata legittimismo.

Ma il vero ideologo della Restaurazione fu Joseph de Maistre (17531821). Il quale sosteneva la concezione della storia come depositaria di valori etici trascendenti. Nel Medioevo la Chiesa è stata il sostegno dell'ordine sociale e questo la rende superiore al potere civile che solo essa può rendere legittimo in quanto depositaria e interprete della volontà divina. Le teorie illuministiche sulla libertà naturale dell'uomo sono semplici follie e diaboliche stranezze. L'uomo è troppo malvagio per poter essere libero, egli è invece nato naturalmente servo e tale è stato sino a quando il cristianesimo lo ha liberato. Il cristianesimo autentico è quello rappresentato dal papa romano che ha proclamato la libertà universale ed è l'unico nella generale debolezza di tutte le sovranità europee ad aver conservato la sua forza e il suo prestigio. De Maistre condivide con altri autori l'analisi sulla falsa pretesa della maggioranza di prevalere sulla minoranza mentre «dovunque il piccolissimo numero ha sempre condotto il grande» e per questo è diritto legittimo dell'aristocrazia di assumere la guida del paese.

 In tutta Europa, i sovrani ed i vecchi aristocratici tornarono dall’esilio per riprendere i loro antichi possedimenti e privilegi. In Francia salì al trono Luigi XVIII (1814-1824): era il fratello minore ed il legittimo erede di Luigi XVI, decapitato ventidue anni prima.

 

Il principio di equilibrio.

Ma un puro e semplice ritorno al passato era impossibile. Troppe cose erano cambiate in Europa: alcuni Stati erano scomparsi, o avevano modificato i loro confini, altri ancora erano

sorti. Inoltre, non sempre il principio di legittimità era conveniente: poteva esser causa di

nuove guerre. In questi casi fu applicato il principio di equilibrio.

Dopo decenni di guerre rovinose, infatti, la diplomazia internazionale aveva come principale preoccupazione quella di evitare nuovi conflitti. Gli Stati dovevano raggiungere fra di loro una situazione di equilibrio delle forze; solo così la pace sarebbe stata sicura. L’impero di Napoleone fu diviso fra le potenze vincitrici. Popoli, regioni, città vennero scambiate come si trattasse di merce qualunque, in modo che chi perdesse da una parte ottenesse un compenso dall’altra. Non si tenne in alcun conto della volontà dei popoli. Inoltre, il principio di equilibrio doveva impedire che uno Stato diventasse troppo forte rispetto agli altri.

 

Il principio di sicurezza.

Il terzo principio fu assicurato con la formazione di stati cuscinetto attorno alla Francia tramite l'annessione della Svezia alla Norvegia a est, tramite l'unione di Belgio e Olanda e l'annessione della Liguria al Piemonte. La Gran Bretagna mantenne le colonie conquistate nelle guerre francesi e si riservò alcuni presidi strategici sul mare, come Malta e le isole Ionie. A tutela di questa sistemazione Russia, Austria e Prussia costituirono su proposta dello zar la Santa Alleanza, con il compito di reprimere militarmente le rivolte indipendentiste. Successivamente a queste potenze si unì la Gran Bretagna, dando vita alla Quadruplice Alleanza, con il compito di risolvere diplomaticamente ogni potenziale alterazione dell'equilibrio.

Gli stati tedeschi videro accrescere al loro interno il peso della Prussia di Guglielmo III che accompagnò l'espansione verso occidente con l'ammodernamento dell'agricoltura. L'impero degli Asburgo, il cui baricentro si spostò verso l'Italia e i Balcani, fu dominato in maggior misura da un regime poliziesco e da un rigido centralismo burocratico. Con questi mezzi Metternich tentò di risolvere il problema della fragilità dell’impero di Francesco I, dovuta all'arretratezza di molti suoi territori e alle spinte centrifughe delle etnie che li popolavano.
In Italia il lombardo-veneto. apparteneva all’Austria, autonomo di diritto ma strettamente dipendente da Vienna. gli austriaci conservarono in gran parte la legislazione del regno d'Italia, ponendo attenzione all'efficacia dell'amministrazione e dell'istruzione pubblica.

 

 

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Introduzione.

 

Prima di cominciare ad affrontare il tema del totalitarismo e le sue forme compiutesi nel corso del ‘900, bisogna darne una definizione unica e valida, per distinguerlo dagli altri regimi sedicenti totalitari, quali i vari fascismi - che tra gli anni ’20 e ’30 presero piede in Europa e nel mondo - o le democrature odierne, di cui parleremo in seguito.

Grandi esempi di regimi totalitari, storicamente parlando, sono il nazismo e lo stalinismo, declinato in tutte le sue forme, quali il regime albanese di Enver Hoxha (1908 – 1985) o quello cambogiano di Pol Pot (Saloth Sar, 1925 – 1998). Ciò che queste dittature riuscirono a fare non risultò possibile, per quanto tentato, né a Mussolini, né a Franco, né, tantomeno, agli altri fascismi: trasformare le classi sociali in masse omogenee di individui non politicizzate; rompere ogni vincolo familiare - violando i diritti naturali e legali dell’uomo - e soprattutto creare un clima di reciproca diffidenza, di modo che tutti gli sforzi del singolo e tutta la sua fedeltà fosse rivolta al partito. Esemplare di ciò è la frase di Himmler, divenuta poi uno dei motti delle SchulzStaffen (SS): “il mio onore si chiama fedeltà”.

Mussolini, infatti, non fu mai capace di cancellare i corpi intermedi quali la famiglia e le varie istituzioni, come ad esempio quelle cattoliche legate all’Azione Cattolica, etc., né istituzioni quali Monarchia e Chiesa, per quanto fosse, effettivamente, nelle sue intenzioni, soprattutto dopo il 1938. Troppo ben radicati, infatti, erano questi soggetti nella società italiana. Al contrario, per Hitler e Stalin non fu impossibile sciogliere questi vincoli. L’educazione dei figli avveniva nelle scuole e nelle organizzazioni giovanili di partito affievolendo, di conseguenza, i legami con i propri genitori; i vincoli di classe e ceto furono praticamente annullati a favore delle identità uniche in nome di un’ideologia, mentre si andarono a moltiplicare le strutture burocratiche al fine di spezzettare i centri di potere; tutti metodi, assieme ad altri di cui si parlerà dopo, per gestire il potere totalitario.

Per Stalin e Hitler fu tutt’altro che impossibile accentrare e ottenere i pieni potere. Stalin vantava un regime stabile già prima del 1930 e un retroterra ideologico molto solido, quale il Comunismo leninista, mentre il suo “collega” Hitler unificò nel 1934 la carica di cancelliere e presidente, a seguito della morte di Paul Von Hindenburg. Ne conseguì una nazificazione delle forze armate, della polizia e della Chiesa luterana, monopolizzando tutto il potere nelle mani del partito.

Analizzeremo ora gli elementi principali e comuni ai regimi totalitari:

  • La Propaganda e l’apparato ideologico
  • L’alleanza tra popolo ed élite nello scioglimento dei vincoli di classe;
  • Famiglia, educazione e repressione;
  • L’eliminazione delle alternative interne e la moltiplicazione della burocrazia.

 

La propaganda e l’apparato ideologico

 

Un ruolo non secondario nel totalitarismo lo svolse la propaganda. Sia Hitler (1889 – 1945) che Stalin si servirono di qualunque mezzo per aumentare il proprio potere e la propria influenza, potenziando la diffusione dei nuovi ideali dell’“Uomo nuovo ariano” nel caso del “piccolo caporale austriaco” e dell’“Uomo nuovo comunista” nel caso di Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili, 1878 – 1953).  Entrambi si servirono di appositi giornali, riviste e enti radiofoniche - cosa che invero fece anche il Fascismo- per far permeare queste loro messaggio ideologico nelle masse, cercando di attirare anche quel numeroso gruppo di persone che vengono normalmente definite “apolitiche”; e proprio su queste masse fanno affidamento i totalitaristi, le quali si rapportano con disprezzo verso i sistemi democratici, e si mettono, invece, nelle mani del leader carismatico, accettando la deriva totalitaria del suo movimento, ricorrendo spesso alla violenza, soprattutto contro le minoranze etniche, politiche o religiose che siano.

In seguito, una volta ottenuto il controllo assoluto, la propaganda si trasforma in indottrinamento, anche attraverso le istituzioni educative parascolastiche.

Nel caso del nazionalsocialismo, la violenza si giustificava con lo sforzo di plasmare e far prendere coscienza ai tedeschi di appartenere ad una razza superiore, destinata a dominare il mondo e minacciata di estinzione dal “meticciato” razziale e culturale. Questa stessa violenza si giustificava nell’affermazione di essere al servizio e di obbedire alle leggi di natura, cui ricondurre l’Uomo nuovo; come spiegò il giurista e gerarca del Terzo Reich Hans Frank, scrivendo nei suoi saggi di seguire la legge morale dentro di se’, vale a dire il Führer.

Per quanto riguarda lo stalinismo, questo uso di una tale violenza veniva, invece, motivato dallo sviluppo del “Materialismo Storico”, che rendeva inevitabile l’imporsi del Comunismo nel corso della storia. Presto a tardi l’impeto rivoluzionario avrebbe travolto l’intero globo terrestre. Ma, nella costruzione del Socialismo, occorreva forgiare un tipo di “Uomo nuovo”, capace di spezzare tutti i vincoli culturali, oltre che politici, col vecchio mondo borghese e le sue istituzioni: famiglia, stato, riti sociali e religiosi. Al centro di questo processo stava la “violenza rivoluzionaria”, la quale, come affermava Lenin, è la “Levatrice della storia”.

I tratti essenziali di questa propaganda erano semplici, ma molto efficaci e hanno una natura tremendamente scientifica presentandosi come predizioni del futuro e portatrici di verità assolute, guidate pertanto da un leader infallibile, che, proprio per questa sua apparente infallibilità, esercita un grande fascino sulle masse.

Immancabili ed essenziali in questa propaganda sono, soprattutto i “capri espiatori”, su cui riversare l’odio delle masse, che  procedono di pari passo con le teorie complottiste e con moniti apocalittici, per smascherare le falsità e le menzogne dei regimi democratici; così la socialdemocrazia dell’ odiata ed ebraica Repubblica di Weimar  diveniva il male assoluto, a loro dire, amica dei Francesi, che preferirebbe vedere la Germania in ginocchio, senza curarsi per nulla della miseria in cui vivevano i ceti sociali più bassi e, non solo, della Germania.  Un discorso simile si può fare per la Russia Sovietica, che accusava le democrazie occidentali “borghesi” di aver supportato lo Zar prima e il governo provvisorio L’Vov-Kerenskij e di sognare il crollo definitivo del regime sovietico, così da poter annientare la tanto sognata “rivoluzione” una volta per tutte e poter, secondo loro, continuare a opprimere operai e lavoratori, a favore del potere borghese sfruttatore. Un discorso non dissimile si potrebbe fare per la politica e propaganda antisemita.

I “Falsi protocolli di Sion”, pamphlet creato già a suo tempo (metà ‘800) dalla polizia zarista, divennero a tutti gli effetti la più grande prova della congiura ebraica contro il mondo e, per i Nazisti, contro la purezza del sangue ariano. La teoria del complotto pluto-giudaico-massonico esercitò effettivamente un grande fascino sulle masse e su gran parte della popolazione mondiale, fomentando un antisemitismo tutt’altro che assente nella società Novecentesca. Ad aggiungersi alle varie teorie complottistiche, appena menzionate vi è la più importante tra queste, ovvero la storia della “pugnalata alle spalle”, diffusasi in Germania, a causa della sconfitta nella Prima guerra mondiale, già nell’Ottobre del 1918 e alimentatasi a seguito del trattato di Versailles del 1919, firmato da ebrei. E non del tutto esente da colpe di antisemitismo fu Stalin, il quale, prima e durante le grandi purghe, per sbarazzarsi della vecchia dirigenza del partito comunista, composta per buona parte ebrei quali Trotskij, Kamenev, Zinov’ev, Bucharin e molti altri, parlò anche lui di questo complotto ebraico per abbattere il potere stalinista.

Gli Ebrei, pertanto, il più grande nemico interno dei regimi totalitari, che si alleavano con coloro che, a detta dei due dittatori, spalleggiavano i partiti e le organizzazioni politiche dell’opposizione, divenendo una minaccia non solo per la patria, ma per lo stesso ideale di “Uomo Nuovo”, portato avanti da entrambi.

Democrazia, ebraismo e linee politiche troppo moderate rappresentavano un ostacolo alla creazione di un nuovo ordine mondiale e di un nuovo splendore per l’Umanità. La macchina della propaganda doveva portare avanti questi nuovi ideali, riccorrendo anche alla mitologia, come Rosenberg nel “Mito del XX secolo” e nel “mito di Stachanov” per l’URSS. In particolare, l’ideologo nazista nel libro, sopra menzionato, crea una vera e propria impalcatura mitologica, portando avanti una lettura della storia, imperniata di moniti apocalittici e scontri mortali, per combattere il “caos etnico”, con lo scopo di legittimare il partito Nazionalsocialista.

Infatti, se Stalin aveva già un’ideologia forte, ben radicata e già voluta mettere in pratica dietro di se quale era il marxismo, il partito nazionalsocialista era semplicemente un piccolo partito della destra tedesca, non dissimile da molti altri partiti pangermanisti quali gli “Elmi di Ferro”. Dunque, per legittimarsi e unire tutti i partiti della destra tedesca e non solo, avevano bisogno di specificare che ciò che loro pensavano affondava le proprie radici nella “notte dei tempi” e che rappresentavano il punto di arrivo per la creazione di una nuova prosperità mondiale.

Non è un caso che molti ideologi e teorici di partito del nazismo fanno risalire le teorie della superiorità della razza e del “razzismo biologico”, cioè legato al “blut und boden” (“sangue e suolo”) all’antica Grecia o al mito di Atlantide. Così anche la stessa filosofia e la mitologia già molto amate e apprezzate dai Tedeschi di qualunque estrazione sociale, vennero usate per rafforzare la propaganda delle radio, delle riviste e dei giornali.

Così filosofia, mito, arte e mezzi di comunicazione contribuivano a potenziare le teorie complottiste antidemocratiche e antisemite, rafforzando ulteriormente il potere del partito e della stessa ideologia, da esso portata avanti, creando potenti macchinari di attrazione per ogni individuo, rompendo, finalmente, una volta per tutte, l’ideologia classista e creando quella massa omogenea di persone uguali e indistinte, rafforzandone il senso di appartenenza al partito.

Contrariamente a quanto si pensi, però, l’ideologia non svolge nei regimi totalitari il ruolo predominante; piuttosto, il suo scopo è quello di fare in modo che la gran parte della popolazione si depoliticizzi e che si identifichi, più che con le idee, con le figure dei leader. In altre parole, quello che prevale non è il credo politico, ma il conformismo. In questo ragionamento ci viene incontro ancora una volta Hanna Arendt: “Il fanatismo totalitario, a differenza di ogni forma di idealismo, si sgretola nel momento in cui il movimento, negli impicci, cancellando in essi qualsiasi convinzione, capace di sopravvivere alla rovina del movimento stesso […] In proposito, la Germania post-bellica offrì una serie di esempi istruttivi. Stupì che le truppe nere americane non fossero accolte con ostilità, malgrado il massiccio indottrinamento razziale, compiuto dai Nazisti.” In sostanza, ciò che faceva più presa era il culto della personalità, nei confronti dei leader e l’identificazione delle masse con essi.

Questo fenomeno è noto anche ad Erich Fromm, che, nella sua opera più nota, “Fuga dalla libertà, del 1941, vede come “nell’esaminare la base psicologica e il successo del Nazismo è necessario fare una distinzione preliminare: una parte della popolazione, senza opporre resistenza, ma anche senza ammirare l’ideologia e la prassi politica nazista, si è inchinata al regime nazista.” (E. Fromm, “Fuga dalla libertà”, p.182). Lo psicanalista tedesco prende le mosse dall’analisi della condizione dell’Uomo moderno, come si è venuta a realizzare a partire dal Rinascimento. L’individuo ha raggiunto una libertà mai prima sperimentata, ma, allo stesso tempo, l’ha lasciato solo di fronte a questa libertà. Come abbiamo visto in altri ambiti (es. esistenzialismo), questa libertà diviene un peso insopportabile, è qui che si realizza quella “fuga dalla libertà”, che si manifesta come brama di sottomissione a un potere soverchiante e l’odio per il debole non è altro che la proiezione della sua disperata paura della libertà e dell’individualità.

 

L’annullamento delle classi sociali

 

Sia in Germania che in Russia, all’indomani della Prima Guerra mondiale e delle varie lotte intestine comincia ad affievolirsi la stessa idea di appartenenza a una classe sociale. Infatti, molti dei futuri leaders dei regimi totalitari si erano politicizzati in trincea dove individui dei diversi ranghi sociali, vennero mobilitati nelle file degli eserciti delle nazioni belligeranti; in trincea, nobili – anche se in misura minore-, borghesi, contadini e operai si ritrovarono fianco a fianco a combattere per la comune patria.

Non è un caso quindi che successivamente, sotto i regimi totalitari, si registri una sorta di comunanza di idee tra le élite e la plebe, figlie entrambe di un difficile periodo storico che stavano attraversando sia Germania che Russia.

Nel caso della Germania, la sconfitta e l’esito disastroso della Grande Guerra, prima che colpire i tedeschi per i danni materiali, feriva l’orgoglio di un popolo che da Hegel in poi, si era sentito invincibile; con una missione storica da compiere, perché portatori di una morale superiore agli altri popoli (Herder). Per non dire della fede e sicurezza sulla loro macchina militare.

Com’era possibile che i connazionali di Fichte, Hegel, Schiller, etc., si ritrovassero dalla parte dei perdenti, umiliati dalla politica delle “riparazioni”? Il suolo tedesco non era stato toccato dal nemico e fino all’ottobre del 1918 non una sola battaglia era stata perduta dalle truppe di Ludendorff e di Hindenburg. Non vi era altra spiegazione che quella della coltellata alle spalle, della quinta colonna che tramava contro la Germania; chi non altri se non gli ebrei, i socialdemocratici ed i liberali in genere. Da qui nasce la narrazione di una Repubblica di Weimar prodotto dei nemici interni del popolo tedesco, alleati della Francia e dell’Inghilterra. Narrazione che, nel giro di un quindicennio porterà all’ascesa del nazionalsocialismo e di Hitler.

Questo partito, come è noto, raccoglieva sia membri dell’alta nobiltà come Von Papen, sia dei semplici contadini come Himmler, sia membri della borghesia come Joseph Goebbels. Tutte queste classi erano attratte da uno stesso ideale, anche se per motivi diversi. Da una parte, le élite intellettuali assistevano divertite al crollo del vecchio mondo e del vecchio sistema, dall’altra la plebe sperava in un riscatto sociale che sia Hitler che Stalin, apparentemente, garantivano. Senza contare che la prima guerra mondiale aveva fornito alla Germania un tale senso di unità nazionale e di patriottismo che i durissimi contrasti sociali, che attraversarono la nazione tedesca dal 1871 in poi, vennero quasi dimenticati, fino ad essere, momentaneamente, cancellati.

Dopo la definitiva sconfitta del Kaiser nella guerra mondiale, la massa che era stata mobilitata al fronte si trovava in una situazione di totale smarrimento e desolazione, senza contare lo shock causato da una sconfitta, del tutto inaspettata. La maggior parte di essi aveva passato Buona parte della loro gioventù al fronte, trovandosi, di conseguenza, impossibilitati a un reintegro alla vecchia vita civile. Ma il problema più grande di tutti fu il fatto che questi reduci, si sentivano fuori dal sistema di partiti tradizionale che anche la stessa repubblica di Weimar aveva adottato. Non stupiscono le varie alleanze iniziali tra i Comunisti e i Nazionalsocialisti, in particolare nel 1932, con lo sciopero dei trasporti. Inoltre, le condizioni imposte dal trattato di Versailles non avevano attenuato il nazionalismo tedesco, anzi lo avevano fomentato, accrescendo la voglia di vendetta da parte della Germania sulla Francia e sulle altre potenze occidentali.

E se, da un lato, prevaleva la voglia di una rivalsa, dall’altro si accresceva quello di smarrimento: “Nel nostro mondo vigeva l’ordine pubblico: c’era sempre qualcuno pronto a prenderci per mano e a mostrarci il giusto cammino, insegnanti, sacerdoti, ufficiali, sovrani. Sapevamo quale era il nostro posto e conoscevamo quale era la differenza tra il bene e il male. Non eravamo liberi, ma eravamo liberi dalla paura. Per noi l’ordine delle cose sembrava fissato in modo permanente, fino all’estate del 1914.” (Ernst Jünger). Cio che lo scrittore tedesco Ernst Jünger intende spiegare è che ormai il vecchio ordine era crollato e con essi le certezze che avevano caratterizzato l’ottimismo europeo di fine ‘800. La grande guerra aveva distrutto ogni punto di riferimento dell’individuo e della società di massa.

Bisognava ricostruirli, e chi poteva farlo se non un regime totalitario, in cui sia le élite che la plebe cercavano di ritrovare la propria identità, sentendosi parte di un gruppo, guidato da una persona, capace di rispondere alle proprie esigenze.

E, se la Germania rappresenta un caso particolare nel primo dopoguerra, bisogna però dire che questo comune sentire tra élite e plebe investe una larga parte del panorama mondiale. Le ferite della grande guerra erano molto vistose in tutta Europa, non solo in Germania; anzi, basti pensare al Belgio, campo di battaglia e teatro dei maggiori scontri della guerra, nonché simbolo per eccellenza della guerra chimica, oppure a Reims, o a Verdun, luoghi di terribili carneficine e devastazioni, solo per citarne alcuni. Tutto questo fa si che, dopo il 1918, i miti, che la rivoluzione industriale aveva prodotto e che il pensiero positivista aveva propagandato, subiscono un duro colpo. Progresso e innovazione tecnica, che fino al 1914 erano sinonimo di speranza e di fiducia, divengono il simbolo di un fallimento, non solo momentaneo, di tutta la civiltà occidentale.

Tutta la produzione culturale di questo periodo è particolarmente ricca di opere che testimoniano questo nuovo modo di leggere la storia. Pensiamo a Oswald Spengler, con il suo “Tramonto dell’Occidente” (1918) a Josè Ortega, che nel 1930 pubblicherà un saggio dal titolo “La ribellione delle masse” oppure Julien Benda, il quale, nel 1927, scriverà un libro polemico, intitolato “Il tradimento dei Chierici”. La crisi del sistema democratico è, senza dubbio, il segno più visibile di quel tramonto occidentale, di cui parlava Spengler. Si unisce a questo coro lo stesso “Mito del XX secolo” di Alfred Rosenberg, con la sua lettura della Germania in chiave apocalittica.

Nel caso della nazione tedesca, bisogna dire che la cultura di Weimar era stata concepita fuori dalle scuole e dalle università e non riuscì mai a penetrare nell’estabilishment accademico, dove, fin dagli inizi, la stragrande maggioranza assunse una posizione antirepubblicana, come nota Walter Laqueur. È qui che si realizza, quindi, quell’alleanza temporanea tra le élite e la plebe, di cui parla Hanna Arendt: “più che dall’incondizionata fedeltà dei militanti dei movimenti totalitari e dell’appoggio popolare, goduto dai loro regimi, si rimane turbati dall’indiscussa attrazione che tali movimenti esercitano sulle élite […] per la comprensione dei movimenti totalitari, questa attrazione è una chiave altrettanto importante del loro rapporto coi rifiuti della società” (Hanna Arendt, “Le origini del totalitarismo, pp. 451-452).

Questa alleanza è vera anche per l’altro movimento antisistema, che condivide gran parte delle critiche, sopra riportate alla civiltà occidentale, ma di segno diverso, ovvero il movimento comunista. Questa fiducia nel sistema liberistico trionfante, soprattutto, nel mondo occidentale era già stata messa in discussione da Karl Marx, che aveva raccolto le sue riflessioni filosofico-politico-economiche nel corpus “Das Kapital” (1867-1883), poi sviluppate da Vladimir Il'ič Ul'janov in “Imperialismo. Fase suprema del capitalismo”, scritto a Zurigo nel 1916.

Pertanto, un discorso diverso andrebbe fatto, invece, per la Russia di Stalin. Prima di parlarne è bene analizzare la quantità di popolazione perduta dalla Russia tra il 1914 e il 1946. Da notare sono gli incredibili cali demografici registrati tra il 1911 e il 1920, in cui passa da 167 milioni di abitanti a 137 e l’altro calo tra il 1941 e il 1946 di 26 milioni di abitanti. È noto, inoltre, che, durante le grandi purghe (1936-1938) eliminò 800.000 avversari politici o presunti tali a cui si aggiunge il milione di morti nella guerra civile tra armata rossa e armata bianca. Gran parte della popolazione russa era stata, in breve, decimata e ridotta considerevolmente di numero.

Questo riferimento alla demografia riveste una certa importanza nel ragionamento, che la Arendt sviluppa sulla forte correlazione tra società di massa e totalitarismo. Infatti, il funzionamento del sistema stalinista, caratterizzate da frequenti purghe, le carestie indotte e altri metodi di decimazione della popolazione, miranti a piegare le masse, che comprendevano sia le classi sociali che le nazionalità, vi era bisogno di una sovrabbondante popolazione. A Stalin non sfuggì quello che Lenin aveva detto a proposito della Russia, ovvero della facilità con la quale era possibile il conseguimento del potere e dell’estrema difficoltà nel mantenerlo. 

I vecchi aristocratici vennero quasi tutti uccisi o mandati in esilio o nei Gulag, massacrati da tutte queste guerre ed epurazioni. Con Stalin, dunque, si ebbe una quasi completa massificazione dell’individuo e conseguente scomparsa delle classi sociali. Si completa così uno degli obbiettivi numero 1 del totalitarismo: l’estinzione delle classi sociali e l’idea stessa di esse con tutto ciò che ne consegue.

Ciò da ragione ad Hanna Arendt quando afferma che i movimenti totalitari tendono a organizzare le masse e non le classi, come i vecchi partiti.Ci sono stati altri uomini nella storia che provarono ad abolire il concetto di classe a favore di quello di massa come ad esempio Pol Pot.

L’eliminazione delle alternative di governo e la moltiplicazione dei centri di potere

Un’altra caratteristica comune ai vari regimi è quella dell’eliminazione fisica non solo degli oppositori politici, ma anche delle potenziali alternative di governo, che, pertanto, potevano abbattere il potere personale e assoluto dei leader. Sia Hitler che Stalin, ma anche gli stessi Enver Hoxha e Pol Pot, non appena ottennero il governo, si preoccuparono di eliminare, sin da subito, i loro ex compagni, che li avevano accompagnati nell’ascesa. Così il Führer nello stesso anno della sua ascesa al potere fece fuori il suo vecchio amico e capo delle Sturm Abteil (SA), Ernst Röhm e gran parte dei suoi seguaci nella “Notte dei lunghi coltelli”. Stalin, invece, dovette eliminare il suo più grande nemico interno, Lev Davidovič Bronštejn (Lev Trockij) e tutta la vecchia guardia leninista del partito bolscevico, come Lev Borisovič Kamenev e Grigorij Evseevič Zinov'ev e molti altri bolscevichi della prima ora.

Altro strumento di potere è quello della creazione e moltiplicazione degli apparati burocratici, soggetti a frequenti epurazioni. Questo serve a spezzettare competenze e potere dei burocrati, per impedirgli di assumere un’influenza, che possa minare quella dei leader di governo. Spesso, diversi enti si occupano di un’unica materia e questo li mette in competizione tra di loro. Nella Germania nazista, ad occuparsi dei “problemi della razza”, concorrevano tra di loro il ministero degli interni, l’organizzazione delle SS, il dipartimento della questione ebraica, fino ad arrivare, addirittura, al ministero dell’agricoltura. A questo si aggiunge una gerarchia continuamente fluttuante, con l’immissione di nuovi strati di dirigenti e funzionari, da rendere, praticamente, impossibile decidere in maniera definitiva su questioni di importanza fondamentale per il regime, facendo in modo che l’ultima parola l’avessero o il leader, o i suoi collaboratori, premiando a turno l’uno o l’altro ente o funzionario.

 

 Famiglia, educazione e repressione

 

Un aspetto molto importante riveste l’educazione e l’inquadramento della gioventù. Nel caso del Nazionalsocialismo, come è noto, sin da bambini, i giovani venivano inquadrati nella “gioventù hitleriana”. Nel caso dello Stalinismo, nel “Komsomol”. Per quanto riguarda lo Stalinismo albanese di Enver Hoxha, la politica della famiglia si fa particolarmente brutale. L’idea del regime che la distruzione delle strutture collettive delle famiglie patriarcali non porti a un individualismo di tipo occidentale, ma alla possibilità di plasmare, in senso Comunista, Collettivista e Nazionalista, coloro che sono liberati dai lacci tradizionali dei vincoli tradizionali e patriarcali.

Certamente, la famiglia patriarcale albanese costituiva un ambito di libertà privato, incontrollabile dallo stato e un legame sociale alternativo al regime. Il dittatore usa la scusa della lotta ai costumi retrogradi patriarcali per spezzare questi vincoli. Hoxha pensa a un “Uomo Nuovo” che, per nascere, deve “essere spogliato da tutte le sue radici”.

Con l’introduzione dell’ateismo di stato del 1967, ai genitori viene proibito di dare ai figli un nome religioso; all’interno della famiglia, i bambini, indottrinati nelle scuole e nelle organizzazioni di partito, diventano potenziali delatori nei confronti dei propri parenti. Non molto diversa è la situazione nella Russia Stalinista.

Nel caso del regime Nazista, il ruolo educativo della famiglia diventa assolutamente irrilevante “Il bambino tedesco non è altro che un Nazista in erba e nulla più. La scuola che frequenta è un’istituzione Nazista, l’organizzazione giovanile, della quale fa parte, è Nazista, i film, che gli è concesso vedere, sono Nazisti e la sua vita appartiene, incondizionatamente, allo stato Nazista […] La disgregazione della famiglia non è un prodotto secondario della dittatura Nazista, ma rappresenta l’adempimento di un compito, che il regime ha dovuto porsi per raggiungere il proprio traguardo: la conquista del mondo ad opera dei Nazisti” (Erika Mann, “La Scuola dei Barbari”, p.23,34).

Nel caso della società sovietica, in epoca staliniana, per distruggere tutti i legami sociali e famigliari, Stalin fa leva sulle epurazioni. Queste venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte dell’accusato tutta la cerchia dei parenti più stretti, degli amici, dei semplici conoscenti, ovvero quello che Hanna Arendt definisce “colpa per associazione”. “Appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici e finanche i parenti si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti, offrendo volontariamente delle informazioni per incriminarlo; mostrandosi così, fedeli cittadini dello stato comunista."

 

Conclusioni

 

Fin qui si è cercato di fare un’analisi e dare una definizione sulla natura e sulla forma dei regimi totalitari. Si è cercato di spiegare come il totalitarismo si differenzia dalle altre forme di stati autoritari e dittatoriali, per metodi e organizzazione del partito. Come detto in precedenza gli altri dittatori quali Salazar, Franco, Mussolini (etc.) non hanno potuto soverchiare in maniera completa e totale i diritti naturali dell’Uomo né gli altri corpi intermedi della società e non si sono riusciti a imporre in maniera totale sulle altre forme istituzionali, presenti negli altri paesi. Si spartivano, infatti, il potere con altre istituzioni quali Chiesa e monarchia. Un discorso simile si potrebbe fare per molti altre forme di fascismo dell’epoca.

Non c’è da stupirsi, quindi, se, ad esempio, dopo la morte di Franco e del suo “delfino”, Carrero Blanco, il re Juan Carlos di Borbone riuscì, attraverso una transizione morbida e senza scossoni a ripristinare la democrazia in Spagna; ma, ancora più esemplare è la vicenda del regime fascista italiano, quando il 25 Luglio del 1943, la Monarchia, di fronte alla disastrosa conduzione delle operazioni belliche, decide di rimuovere il “Duce” dal suo incarico di primo ministro. Tutto ciò sarebbe stato inimmaginabile per le vicende russa e tedesca.

Pertanto, questi stati, pur rimanendo delle forme di governo dittatoriali non si possono considerare dei totalitarismi, quanto piuttosto, come le definisce Hanna Arendt, delle “Dittature del partito unico”.

Non basta, infatti, che un solo partito o un solo uomo tenga le redini di tutta la nazione per considerarsi un regime simile a quello Nazista o Stalinista. Rimane sempre salda l’idea di appartenenza a una classe sociale, così come i vincoli familiari e religiosi.

Il totalitarismo è il frutto di una risposta alla crisi, innescata dalle nuove società di massa, all’interno della quale l’individuo si sente isolato e spaesato, dominato dall'incertezza, mentre vedeva crollare tutti quelli che erano stati dei pilastri della società ottocentesca. Bisogna “rimettere a posto il mondo” per “salvare l’Umanità”. E chi, se non un leader forte e carismatico, che prendesse su di sé tutte le responsabilità di scelta degli altri individui, poteva farlo? Senz'altro questa ha un suo grande fascino, qualcuno che dava delle risposte, anche se sbagliate. Tuttavia, questo processo avrebbe portato con sé sacrifici enormi sia in termini di vite umane, sia in termini di diritti. Bisogna che l’individuo rinunci, oltre che alla sua libertà, anche a tutti gli altri vincoli sociali e religiosi.

Oggi, spesso, ci si chiede se esistono ancora dei totalitarismi veri e propri come quelli di cui si è appena trattato. Non esattamente. Esistono, effettivamente, dei regimi speciali e autoritari come la Corea del Nord di Kim jong Un, ma i più diffusi sono le cosiddette “democrature”, quali quella Russa di Putin o la Turchia di Erdogan.

Questo termine, coniato per la prima volta dallo scrittore uruguayano Eduardo Galeano e ripreso dallo studioso americano, di origine indiana, Fareed Zakaria, si riferisce a quei governi che, forti del sostegno popolare, ritengono di avere un mandato superiore per agire in qualunque linea, oltre gli stessi limiti costituzionali. Si tratta di un modo di governare che soffoca alcune libertà fondamentali, come quella di parola o di assemblea o di organizzare enti non governativi, rendendo difficile qualsiasi tipo di opposizione. I leader solitamente accentrano il loro potere sul governo e sulla loro persona. Spesso alcuni preferiscono usare il termine Democrazia illiberale o democrazia totalitaria.

Questo modalità di governo è più simile ad una dittatura di tipo classico, dove la figura di una sola persona o di un solo partito politico accentra su di sé tutti i poteri, piuttosto che ad un regime totalitario.

 

 

 

Premessa.

Fino alla fine del '700 non esiste nessuna consapevolezza nazionale tra gli abitanti del "Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca". Questo impero che, nel corso dei secoli, aveva sempre meno forza unitaria, con un "imperatore" i cui poteri andavano poco oltre quello simbolico, era frantumato in circa 300 principati, ducati, granducati e città libere totalmente autonomi, che spesso si facevano anche la guerra tra di loro. Ci si sentiva sassone, bavarese, svevo, frisone, prussiano o austriaco, ma raramente "tedesco".

L'idea della Germania unita nasce solo nella lotta comune contro l'imperatore francese Napoleone che, all'inizio dell'800, aveva occupato tutta la Germania. Ma questa idea di una Germania unita era accompagnata anche da richieste democratiche, inaccettabili per i governanti, che erano tutt'altro che democratici. Un primo tentativo di arrivare a uno stato democratico e unitario fallì nella rivoluzione del 1848.

Ma un po' alla volta l'unità divenne necessaria anche per liberare lo sviluppo economico, bloccato da troppi confini e dogane interni e troppe leggi diverse.

 

Lo sviluppo industriale e l’unificazione economica della Germania.

 

Nel 1818 la Prussia avvia un primo processo di unificazione economica abolendo i dazi interni al paese che ne segmentavano mercato, e progressivamente stipulando trattati orientati all'unificazione dei mercati con gli altri stati tedeschi, sino a giungere, nel '33, a un'unione doganale che abbatteva tutti i dazi tra gli stati tedeschi, che adottavano inoltre una politica doganale comune per i prodotti esteri (non tedeschi). 

Queste politiche di liberalizzazione gettarono i presupposti per l'unificazione politica.

In campo economico si cerca di imitare e riprodurre il modello inglese.
L'Inghilterra non riesce a mantenere il monopolio della conoscenze tecniche, sebbene fossero previste pene severe per chi esportasse il know-how (ad esempio per chi esportava macchinari), in quanto vi erano movimenti di tecnici qualificati che essendo stati in Inghilterra diffondevano nell'Europa la sua cultura industriale.


Il fattore propulsivo del decollo economico tedesco (1830-40) fu la creazione delle linee ferroviarie, che di riflesso portarono a uno sfruttamento sempre più intenso del carbone presente nel bacino minerario della Ruhr. I primi treni furono acquistati all'estero, ma ben presto questa domanda trainò lo sviluppo dell'industria siderurgica e meccanica tedesca, che divenne molto sviluppata soprattutto nel campo dell'industria pesante. La diffusione delle linee ferroviarie contribuì in maniera decisiva all'unificazione sostanziale del mercato interno.

Negli ultimi decenni dell'800 ha luogo la seconda rivoluzione industriale, e la Germania ne è protagonista. Analizzando i sistemi di istruzione si può sua volta studiare l'economia dello sviluppo [anche se non sempre  l'istruzione è determinante → vedi caso inglese → sviluppo grazie ad artigiani-inventori (learning by doing) e manodopera non qualificata]: le innovazione di tardo '800 presuppongono un sapere tecnico-scientifico di alto livello e la Germania da questo punto di vista si pone come paese all'avanguardia, con un ottimo sistema dell'istruzione, specializzato soprattutto nel campo scientifico-tecnologico. Inoltre l'attività di R&S è portata avanti anche da grandi imprese private, soprattutto per quanto riguarda la ricerca applicata, come ad esempio la Bayer, che da industria tessile diventa chimica e poi farmaceutica (l'aspirina risale alla fine dell'800).

Un altro elemento forte del sistema tedesco è il rapporto tra sistema bancario e sistema industriale: esistevano grandi banche miste che erogavano credito a medio-lungo termine e ben disposte nei confronti delle imprese industriali, di cui spesso acquistavano azioni, intrecciando i loro interessi con quelli delle imprese stesse. In questo periodo la concorrenza è bassa, le banche promuovono la diffusione di cartelli oligopolistici, ampiamente tollerati dal sistema giuridici, che consentono di mantenere alti i prezzi all'interno del mercato nazionale e di esportare i loro prodotti con politiche di dumping (discriminazione di prezzo) funzionali al conseguimento di economie di scala e all'ammortizzazione dei costi per i consistenti investimenti; ragioni di tipo tecnologico- impiantistiche che creano la necessità di trovare sbocchi commerciali. Inoltre il dumping permette di insediarsi nei mercati esteri a danno dei produttori locali.

 

Il fallimento dell’unità tedesca: l’Assemblea Costituente di Francoforte sul Meno (1848).

 

Sull'onda degli avvenimenti rivoluzionari del marzo 1848 a Francoforte sul Meno venne eletta una assemblea costituente, che si riunì dal 18 maggio 1848 al 31 maggio 1849, per dare una costituzione e un assetto unitario alla Confederazione germanica creando uno stato unitario tedesco. L'assemblea costituente venne preceduta da un parlamento preliminare (Vorparlament) composto da 574 membri provenienti da tutti gli stati tedeschi, incluso l'impero austriaco. Le elezioni della Costituente si svolsero a suffragio universale diretto, sebbene le leggi elettorali e le modalità di voto subissero notevoli variazioni da stato a stato. Le elezioni sancirono la vittoria delle forze liberali e la sconfitta di quelle rivoluzionarie presenti maggiormente nella Germania sud-occidentale. Il 95% dei deputati, la maggior parte dei quali aveva frequentato studi giuridici all'università, era di estrazione borghese; molto numerosi i professori universitari. Divisi tra sostenitori di una Grande Germania (Großdeutschland) ad egemonia austriaca e di una Piccola Germania (Kleindeutschland) ad egemonia prussiana, dopo il prevalere di quest'ultima ipotesi, venne offerta la corona imperiale a Federico Guglielmo IV di Prussia, al rifiuto del quale, contrario al principio della sovranità popolare, ponendo fine alle speranze di unificazione tedesca. Il tentativo di creare uno stato nazionale unificato e democratico fu violentemente represso nel luglio del 1849 dalle truppe prussiane e austriache. La rivoluzione di marzo finì in fallimento.  

 

Bismark e l’unificazione della Germania (1864 – 1871)

 

Tra il 1864 e il 1871 Bismarck realizzò l'unità della Germania attraverso 3 guerre contro: la Danimarca, l'Austria, la Francia. Il fatto che rese possibile creare uno stato nazionale tedesco forte e dinamico fu la crisi delle potenze Austria e Russia. Le direttive della politica di Bismarck erano: la ricerca di un accordo con la Francia in senso anti - austriaco, la solidarietà conservatrice con la Russia e l'approfondimento del conflitto con l'impero asburgico per la questione tedesca.

La guerra contro la Danimarca. Fu condotta a fianco dell'Austria e fu determinata dall'atteggiamento della corona danese nei confronti di due ducati popolati prevalentemente da tedeschi. Nel 1852 le potenze europee a Londra avevano riconosciuto all'erede al trono danese la sovranità dei 2 ducati a patto che essi fossero divisi dallo stato principale e dotati di una propria costituzione. Nel 1863 il nuovo re di Danimarca tentò di integrare completamente I due ducati al regno. La reazione dello stato tedesco fu immediata ma non univoca: I liberali tedeschi e la maggioranza degli stati germanici minori volevano l'autonomia dei ducati ponendo l'Austria in una situazione molto difficile, poiché temeva le ripercussioni che l'esempio del nuovo principato avrebbe potuto produrre sulla fragile struttura del suo Stato plurinazionale, e inoltre, la posizione dei due ducati era favorevole al suo antagonista prussiano. Bismarck da un lato mirava a screditare la Confederazione Germanica per timore che in essa potesse prevalere l'ipotesi grande - tedesco dell'Austria, dall'altro non poteva accettare che l'annessione dei 2 ducati avvenisse per volontà della Germania liberale: la sua intenzione era un'annessione diretta alla Prussia. La guerra fu quindi condotta dalle 2 potenze conservatrici Austria e Prussia che vinsero nel 1864. Nel 1865 con la convenzione di Gastein, ratificata da Francesco Giuseppe e Guglielmo I, Vienna e Berlino si spartirono l'amministrazione dei ducati. L'Austria vide vacillare i suoi rapporti con gli stati tedeschi.

 

La Guerra Austro-prussiana del 1866.

 

L’altro grande ostacolo all’unificazione della Germania, era rappresentato dell’Impero Asburgico. Nel 1866, Bismarck firmò un trattato segreto con l'Italia, che si impegnava a entrare in guerra contro l'Austria e al fianco della Prussia. In caso di vittoria l'Italia avrebbe ottenuto il Veneto, la Prussia alcuni territori tedeschi. Bismarck si era assicurato il benestare di Napoleone III, che mantenne una posizione ambigua stipulando una convenzione segreta con l'Austria con cui si fece garantire la cessione del Veneto anche in caso di vittoria austriaca. Prima della guerra, Bismarck presentò alla Dieta federale la proposta di convocare un'assemblea per eleggere a suffragio universale per decidere sul futuro assetto della Confederazione. L'Austria e gli stati medi respinsero questa proposta e quando Francesco Giuseppe chiese alla Dieta di occuparsi dei due ducati stappati alla Danimarca, scoppiò la guerra. La maggior parte degli stati della Confederazione si schierò con l'Austria e Bismarck dichiarò cessata la solidarietà federale. La guerra fu rapidissima e l'esercito prussiano ebbe la meglio. Il 26 luglio venne firmato l'armistizio a Nikolsburg , il 23 agosto a Parigi la pace che segnò la vittoria completa della strategia di Bismack.

 

La guerra Franco-prussiana e la proclamazione dell’Impero Tedesco (1870-71)

 

Verso la fine del 1866 l'opinione pubblica francese era contrariata alle notizie di un progressivo allargamento dei territori prussiani e mise Napoleone nella situazione di dover andare alla ricerca di un clamoroso successo diplomatico. Bismarck tuttavia non poteva concedere che il Lussemburgo passasse alla Francia provocando i malumori degli sciovinisti tedeschi. Nel 1867 i francesi (seguendo i consigli di Bismarck che li invitava ad essere "audaci" e a mettere "l'Europa e il re di Prussia di fronte al fatto compiuto") presero l'iniziativa per l'acquisizione del Lussemburgo, oggetto di contesa con la Prussia e la cui annessione era ritenuta un necessario successo per tenere a bada il dissenso nel paese, negoziandone la cessione con il re d'Olanda (il ducato era infatti sotto la sovranità olandese). Il rifiuto improvviso dell'Olanda e il ribollimento del sentimento nazionale nella Confederazione tedesca fecero arenare il piano francese. L'11 maggio 1867 una riunione delle grandi potenze a Londra definì i termini della neutralizzazione del Lussemburgo. Con quest'accordo il "sogno dell'amicizia franco tedesca fu infranto per sempre". Da quel momento in poi il conflitto tra le due potenze, fomentato dai rispettivi nazionalismi, sarebbe stato di anno in anno solo differito.

Bismarck aveva convinto Guglielmo, dopo la vittoria contro l'Austria nel 1866, a non proseguire per una annessione immediata del sud della Germania. Ad essa si sarebbe giunti in modo graduale. Nel 1867 il primo ministro prussiano aveva resi noti gli accordi segreti stretti con gli stati del sud per sollecitare il sentimento nazionale tedesco, senza ottenere i risultati sperati ed anzi sollevando la preoccupazione di chi riteneva che l'avvicinamento con la Prussia si stesse profilando troppo vincolante.

Nel 1867, alla ricerca di un avvicinamento progressivo col sud della Germania, Bismarck propose una più vasta unione doganale tedesca, lo Zollparlament, nella quale sarebbero confluiti parlamentari eletti a suffragio universale di tutti gli stati tedeschi coinvolti, per spingere le nazioni meridionali verso una più stretta intesa con la Prussia. Ciò ebbe il risultato di aprire una crisi con la Francia che rischiò di far precipitare anticipatamente le due nazioni in una guerra. Fu l’azione politico-diplomatica di Bismarck, che fin dalla guerra austro-prussiana del 1866 e dalla crisi del Lussemburgo del 1867 si era convinto di poter compiere l’unità tedesca sotto l’egemonia della Prussia solo mediante una vittoria militare sulla Francia a far precipitare i due paesi in un conflitto armato. Il rifiuto di questa di sostenere la candidatura del principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen al trono di Spagna offrì a Bismarck l’occasione di assumere un atteggiamento apertamente antifrancese (il dispaccio di Ems) che portò alla dichiarazione di guerra da parte di Parigi (19 luglio 1870).

La Francia, militarmente inferiore alla Prussia e agli altri Stati tedeschi, non si era preparata al conflitto neppure con un opportuno gioco di alleanze: né l’Austria-Ungheria, né l’Inghilterra, né l’Italia, né la Russia intervennero al suo fianco. Le armate tedesche, sotto il comando del generale Moltke, conseguirono immediatamente una serie di vittorie (Woerth, Forbach-Spicheren), culminate il 1° settembre nella battaglia di Sedan, dopo la quale i Francesi furono costretti alla resa.

Alla notizia del disastro di Sedan, a Parigi scoppiò la rivoluzione: fu proclamata la caduta dell’impero, l’imperatrice Eugenia fuggì, mentre un governo di difesa nazionale assumeva il potere. Gli eserciti francese e tedesco confluirono entrambi verso Parigi, che fu assediata dai Tedeschi. L’eroica resistenza all'invasore giustificò la frase coniata dal loro patriottismo del glorieux vaincu. Da ottobre alla fine del 1870 si susseguirono infruttuosamente i tentativi francesi di infrangere il blocco tedesco di Parigi a opera delle armate della Loira e del Nord, che però non avevano collegamenti fra loro e con la guarnigione della capitale.

Anche l’offensiva dell’armata dell’Est (o dei Vosgi), che voleva costringere Moltke a diminuire la pressione su Parigi, fallì, e il successo di Garibaldi Digione (23 gennaio) non influì sull’andamento generale delle operazioni. All’inizio di gennaio il comando tedesco iniziò il bombardamento di Parigi e il 28 fu firmato l’armistizio. La pace fu conclusa col trattato di Francoforte (10 maggio 1871), sottoscritto dal ministro A. Thiers, che dovette ratificare i preliminari di pace imposti da Bismarck, implicanti l’indennità di 5 miliardi, l’occupazione temporanea di una parte del territorio, la cessione dell’Alsazia e di una parte della Lorena, e anche la sfilata di una parte delle truppe vittoriose a Parigi, sugli Champs-Élysées.

Il 18 gennaio 1871, nella Galleria degli Specchi del Palazzo di Versailles nasceva l'Impero tedesco di cui, su proposta di Luigi II di BavieraGuglielmo I fu proclamato imperatore.