Introduzione.

 

Prima di cominciare ad affrontare il tema del totalitarismo e le sue forme compiutesi nel corso del ‘900, bisogna darne una definizione unica e valida, per distinguerlo dagli altri regimi sedicenti totalitari, quali i vari fascismi - che tra gli anni ’20 e ’30 presero piede in Europa e nel mondo - o le democrature odierne, di cui parleremo in seguito.

Grandi esempi di regimi totalitari, storicamente parlando, sono il nazismo e lo stalinismo, declinato in tutte le sue forme, quali il regime albanese di Enver Hoxha (1908 – 1985) o quello cambogiano di Pol Pot (Saloth Sar, 1925 – 1998). Ciò che queste dittature riuscirono a fare non risultò possibile, per quanto tentato, né a Mussolini, né a Franco, né, tantomeno, agli altri fascismi: trasformare le classi sociali in masse omogenee di individui non politicizzate; rompere ogni vincolo familiare - violando i diritti naturali e legali dell’uomo - e soprattutto creare un clima di reciproca diffidenza, di modo che tutti gli sforzi del singolo e tutta la sua fedeltà fosse rivolta al partito. Esemplare di ciò è la frase di Himmler, divenuta poi uno dei motti delle SchulzStaffen (SS): “il mio onore si chiama fedeltà”.

Mussolini, infatti, non fu mai capace di cancellare i corpi intermedi quali la famiglia e le varie istituzioni, come ad esempio quelle cattoliche legate all’Azione Cattolica, etc., né istituzioni quali Monarchia e Chiesa, per quanto fosse, effettivamente, nelle sue intenzioni, soprattutto dopo il 1938. Troppo ben radicati, infatti, erano questi soggetti nella società italiana. Al contrario, per Hitler e Stalin non fu impossibile sciogliere questi vincoli. L’educazione dei figli avveniva nelle scuole e nelle organizzazioni giovanili di partito affievolendo, di conseguenza, i legami con i propri genitori; i vincoli di classe e ceto furono praticamente annullati a favore delle identità uniche in nome di un’ideologia, mentre si andarono a moltiplicare le strutture burocratiche al fine di spezzettare i centri di potere; tutti metodi, assieme ad altri di cui si parlerà dopo, per gestire il potere totalitario.

Per Stalin e Hitler fu tutt’altro che impossibile accentrare e ottenere i pieni potere. Stalin vantava un regime stabile già prima del 1930 e un retroterra ideologico molto solido, quale il Comunismo leninista, mentre il suo “collega” Hitler unificò nel 1934 la carica di cancelliere e presidente, a seguito della morte di Paul Von Hindenburg. Ne conseguì una nazificazione delle forze armate, della polizia e della Chiesa luterana, monopolizzando tutto il potere nelle mani del partito.

Analizzeremo ora gli elementi principali e comuni ai regimi totalitari:

  • La Propaganda e l’apparato ideologico
  • L’alleanza tra popolo ed élite nello scioglimento dei vincoli di classe;
  • Famiglia, educazione e repressione;
  • L’eliminazione delle alternative interne e la moltiplicazione della burocrazia.

 

La propaganda e l’apparato ideologico

 

Un ruolo non secondario nel totalitarismo lo svolse la propaganda. Sia Hitler (1889 – 1945) che Stalin si servirono di qualunque mezzo per aumentare il proprio potere e la propria influenza, potenziando la diffusione dei nuovi ideali dell’“Uomo nuovo ariano” nel caso del “piccolo caporale austriaco” e dell’“Uomo nuovo comunista” nel caso di Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili, 1878 – 1953).  Entrambi si servirono di appositi giornali, riviste e enti radiofoniche - cosa che invero fece anche il Fascismo- per far permeare queste loro messaggio ideologico nelle masse, cercando di attirare anche quel numeroso gruppo di persone che vengono normalmente definite “apolitiche”; e proprio su queste masse fanno affidamento i totalitaristi, le quali si rapportano con disprezzo verso i sistemi democratici, e si mettono, invece, nelle mani del leader carismatico, accettando la deriva totalitaria del suo movimento, ricorrendo spesso alla violenza, soprattutto contro le minoranze etniche, politiche o religiose che siano.

In seguito, una volta ottenuto il controllo assoluto, la propaganda si trasforma in indottrinamento, anche attraverso le istituzioni educative parascolastiche.

Nel caso del nazionalsocialismo, la violenza si giustificava con lo sforzo di plasmare e far prendere coscienza ai tedeschi di appartenere ad una razza superiore, destinata a dominare il mondo e minacciata di estinzione dal “meticciato” razziale e culturale. Questa stessa violenza si giustificava nell’affermazione di essere al servizio e di obbedire alle leggi di natura, cui ricondurre l’Uomo nuovo; come spiegò il giurista e gerarca del Terzo Reich Hans Frank, scrivendo nei suoi saggi di seguire la legge morale dentro di se’, vale a dire il Führer.

Per quanto riguarda lo stalinismo, questo uso di una tale violenza veniva, invece, motivato dallo sviluppo del “Materialismo Storico”, che rendeva inevitabile l’imporsi del Comunismo nel corso della storia. Presto a tardi l’impeto rivoluzionario avrebbe travolto l’intero globo terrestre. Ma, nella costruzione del Socialismo, occorreva forgiare un tipo di “Uomo nuovo”, capace di spezzare tutti i vincoli culturali, oltre che politici, col vecchio mondo borghese e le sue istituzioni: famiglia, stato, riti sociali e religiosi. Al centro di questo processo stava la “violenza rivoluzionaria”, la quale, come affermava Lenin, è la “Levatrice della storia”.

I tratti essenziali di questa propaganda erano semplici, ma molto efficaci e hanno una natura tremendamente scientifica presentandosi come predizioni del futuro e portatrici di verità assolute, guidate pertanto da un leader infallibile, che, proprio per questa sua apparente infallibilità, esercita un grande fascino sulle masse.

Immancabili ed essenziali in questa propaganda sono, soprattutto i “capri espiatori”, su cui riversare l’odio delle masse, che  procedono di pari passo con le teorie complottiste e con moniti apocalittici, per smascherare le falsità e le menzogne dei regimi democratici; così la socialdemocrazia dell’ odiata ed ebraica Repubblica di Weimar  diveniva il male assoluto, a loro dire, amica dei Francesi, che preferirebbe vedere la Germania in ginocchio, senza curarsi per nulla della miseria in cui vivevano i ceti sociali più bassi e, non solo, della Germania.  Un discorso simile si può fare per la Russia Sovietica, che accusava le democrazie occidentali “borghesi” di aver supportato lo Zar prima e il governo provvisorio L’Vov-Kerenskij e di sognare il crollo definitivo del regime sovietico, così da poter annientare la tanto sognata “rivoluzione” una volta per tutte e poter, secondo loro, continuare a opprimere operai e lavoratori, a favore del potere borghese sfruttatore. Un discorso non dissimile si potrebbe fare per la politica e propaganda antisemita.

I “Falsi protocolli di Sion”, pamphlet creato già a suo tempo (metà ‘800) dalla polizia zarista, divennero a tutti gli effetti la più grande prova della congiura ebraica contro il mondo e, per i Nazisti, contro la purezza del sangue ariano. La teoria del complotto pluto-giudaico-massonico esercitò effettivamente un grande fascino sulle masse e su gran parte della popolazione mondiale, fomentando un antisemitismo tutt’altro che assente nella società Novecentesca. Ad aggiungersi alle varie teorie complottistiche, appena menzionate vi è la più importante tra queste, ovvero la storia della “pugnalata alle spalle”, diffusasi in Germania, a causa della sconfitta nella Prima guerra mondiale, già nell’Ottobre del 1918 e alimentatasi a seguito del trattato di Versailles del 1919, firmato da ebrei. E non del tutto esente da colpe di antisemitismo fu Stalin, il quale, prima e durante le grandi purghe, per sbarazzarsi della vecchia dirigenza del partito comunista, composta per buona parte ebrei quali Trotskij, Kamenev, Zinov’ev, Bucharin e molti altri, parlò anche lui di questo complotto ebraico per abbattere il potere stalinista.

Gli Ebrei, pertanto, il più grande nemico interno dei regimi totalitari, che si alleavano con coloro che, a detta dei due dittatori, spalleggiavano i partiti e le organizzazioni politiche dell’opposizione, divenendo una minaccia non solo per la patria, ma per lo stesso ideale di “Uomo Nuovo”, portato avanti da entrambi.

Democrazia, ebraismo e linee politiche troppo moderate rappresentavano un ostacolo alla creazione di un nuovo ordine mondiale e di un nuovo splendore per l’Umanità. La macchina della propaganda doveva portare avanti questi nuovi ideali, riccorrendo anche alla mitologia, come Rosenberg nel “Mito del XX secolo” e nel “mito di Stachanov” per l’URSS. In particolare, l’ideologo nazista nel libro, sopra menzionato, crea una vera e propria impalcatura mitologica, portando avanti una lettura della storia, imperniata di moniti apocalittici e scontri mortali, per combattere il “caos etnico”, con lo scopo di legittimare il partito Nazionalsocialista.

Infatti, se Stalin aveva già un’ideologia forte, ben radicata e già voluta mettere in pratica dietro di se quale era il marxismo, il partito nazionalsocialista era semplicemente un piccolo partito della destra tedesca, non dissimile da molti altri partiti pangermanisti quali gli “Elmi di Ferro”. Dunque, per legittimarsi e unire tutti i partiti della destra tedesca e non solo, avevano bisogno di specificare che ciò che loro pensavano affondava le proprie radici nella “notte dei tempi” e che rappresentavano il punto di arrivo per la creazione di una nuova prosperità mondiale.

Non è un caso che molti ideologi e teorici di partito del nazismo fanno risalire le teorie della superiorità della razza e del “razzismo biologico”, cioè legato al “blut und boden” (“sangue e suolo”) all’antica Grecia o al mito di Atlantide. Così anche la stessa filosofia e la mitologia già molto amate e apprezzate dai Tedeschi di qualunque estrazione sociale, vennero usate per rafforzare la propaganda delle radio, delle riviste e dei giornali.

Così filosofia, mito, arte e mezzi di comunicazione contribuivano a potenziare le teorie complottiste antidemocratiche e antisemite, rafforzando ulteriormente il potere del partito e della stessa ideologia, da esso portata avanti, creando potenti macchinari di attrazione per ogni individuo, rompendo, finalmente, una volta per tutte, l’ideologia classista e creando quella massa omogenea di persone uguali e indistinte, rafforzandone il senso di appartenenza al partito.

Contrariamente a quanto si pensi, però, l’ideologia non svolge nei regimi totalitari il ruolo predominante; piuttosto, il suo scopo è quello di fare in modo che la gran parte della popolazione si depoliticizzi e che si identifichi, più che con le idee, con le figure dei leader. In altre parole, quello che prevale non è il credo politico, ma il conformismo. In questo ragionamento ci viene incontro ancora una volta Hanna Arendt: “Il fanatismo totalitario, a differenza di ogni forma di idealismo, si sgretola nel momento in cui il movimento, negli impicci, cancellando in essi qualsiasi convinzione, capace di sopravvivere alla rovina del movimento stesso […] In proposito, la Germania post-bellica offrì una serie di esempi istruttivi. Stupì che le truppe nere americane non fossero accolte con ostilità, malgrado il massiccio indottrinamento razziale, compiuto dai Nazisti.” In sostanza, ciò che faceva più presa era il culto della personalità, nei confronti dei leader e l’identificazione delle masse con essi.

Questo fenomeno è noto anche ad Erich Fromm, che, nella sua opera più nota, “Fuga dalla libertà, del 1941, vede come “nell’esaminare la base psicologica e il successo del Nazismo è necessario fare una distinzione preliminare: una parte della popolazione, senza opporre resistenza, ma anche senza ammirare l’ideologia e la prassi politica nazista, si è inchinata al regime nazista.” (E. Fromm, “Fuga dalla libertà”, p.182). Lo psicanalista tedesco prende le mosse dall’analisi della condizione dell’Uomo moderno, come si è venuta a realizzare a partire dal Rinascimento. L’individuo ha raggiunto una libertà mai prima sperimentata, ma, allo stesso tempo, l’ha lasciato solo di fronte a questa libertà. Come abbiamo visto in altri ambiti (es. esistenzialismo), questa libertà diviene un peso insopportabile, è qui che si realizza quella “fuga dalla libertà”, che si manifesta come brama di sottomissione a un potere soverchiante e l’odio per il debole non è altro che la proiezione della sua disperata paura della libertà e dell’individualità.

 

L’annullamento delle classi sociali

 

Sia in Germania che in Russia, all’indomani della Prima Guerra mondiale e delle varie lotte intestine comincia ad affievolirsi la stessa idea di appartenenza a una classe sociale. Infatti, molti dei futuri leaders dei regimi totalitari si erano politicizzati in trincea dove individui dei diversi ranghi sociali, vennero mobilitati nelle file degli eserciti delle nazioni belligeranti; in trincea, nobili – anche se in misura minore-, borghesi, contadini e operai si ritrovarono fianco a fianco a combattere per la comune patria.

Non è un caso quindi che successivamente, sotto i regimi totalitari, si registri una sorta di comunanza di idee tra le élite e la plebe, figlie entrambe di un difficile periodo storico che stavano attraversando sia Germania che Russia.

Nel caso della Germania, la sconfitta e l’esito disastroso della Grande Guerra, prima che colpire i tedeschi per i danni materiali, feriva l’orgoglio di un popolo che da Hegel in poi, si era sentito invincibile; con una missione storica da compiere, perché portatori di una morale superiore agli altri popoli (Herder). Per non dire della fede e sicurezza sulla loro macchina militare.

Com’era possibile che i connazionali di Fichte, Hegel, Schiller, etc., si ritrovassero dalla parte dei perdenti, umiliati dalla politica delle “riparazioni”? Il suolo tedesco non era stato toccato dal nemico e fino all’ottobre del 1918 non una sola battaglia era stata perduta dalle truppe di Ludendorff e di Hindenburg. Non vi era altra spiegazione che quella della coltellata alle spalle, della quinta colonna che tramava contro la Germania; chi non altri se non gli ebrei, i socialdemocratici ed i liberali in genere. Da qui nasce la narrazione di una Repubblica di Weimar prodotto dei nemici interni del popolo tedesco, alleati della Francia e dell’Inghilterra. Narrazione che, nel giro di un quindicennio porterà all’ascesa del nazionalsocialismo e di Hitler.

Questo partito, come è noto, raccoglieva sia membri dell’alta nobiltà come Von Papen, sia dei semplici contadini come Himmler, sia membri della borghesia come Joseph Goebbels. Tutte queste classi erano attratte da uno stesso ideale, anche se per motivi diversi. Da una parte, le élite intellettuali assistevano divertite al crollo del vecchio mondo e del vecchio sistema, dall’altra la plebe sperava in un riscatto sociale che sia Hitler che Stalin, apparentemente, garantivano. Senza contare che la prima guerra mondiale aveva fornito alla Germania un tale senso di unità nazionale e di patriottismo che i durissimi contrasti sociali, che attraversarono la nazione tedesca dal 1871 in poi, vennero quasi dimenticati, fino ad essere, momentaneamente, cancellati.

Dopo la definitiva sconfitta del Kaiser nella guerra mondiale, la massa che era stata mobilitata al fronte si trovava in una situazione di totale smarrimento e desolazione, senza contare lo shock causato da una sconfitta, del tutto inaspettata. La maggior parte di essi aveva passato Buona parte della loro gioventù al fronte, trovandosi, di conseguenza, impossibilitati a un reintegro alla vecchia vita civile. Ma il problema più grande di tutti fu il fatto che questi reduci, si sentivano fuori dal sistema di partiti tradizionale che anche la stessa repubblica di Weimar aveva adottato. Non stupiscono le varie alleanze iniziali tra i Comunisti e i Nazionalsocialisti, in particolare nel 1932, con lo sciopero dei trasporti. Inoltre, le condizioni imposte dal trattato di Versailles non avevano attenuato il nazionalismo tedesco, anzi lo avevano fomentato, accrescendo la voglia di vendetta da parte della Germania sulla Francia e sulle altre potenze occidentali.

E se, da un lato, prevaleva la voglia di una rivalsa, dall’altro si accresceva quello di smarrimento: “Nel nostro mondo vigeva l’ordine pubblico: c’era sempre qualcuno pronto a prenderci per mano e a mostrarci il giusto cammino, insegnanti, sacerdoti, ufficiali, sovrani. Sapevamo quale era il nostro posto e conoscevamo quale era la differenza tra il bene e il male. Non eravamo liberi, ma eravamo liberi dalla paura. Per noi l’ordine delle cose sembrava fissato in modo permanente, fino all’estate del 1914.” (Ernst Jünger). Cio che lo scrittore tedesco Ernst Jünger intende spiegare è che ormai il vecchio ordine era crollato e con essi le certezze che avevano caratterizzato l’ottimismo europeo di fine ‘800. La grande guerra aveva distrutto ogni punto di riferimento dell’individuo e della società di massa.

Bisognava ricostruirli, e chi poteva farlo se non un regime totalitario, in cui sia le élite che la plebe cercavano di ritrovare la propria identità, sentendosi parte di un gruppo, guidato da una persona, capace di rispondere alle proprie esigenze.

E, se la Germania rappresenta un caso particolare nel primo dopoguerra, bisogna però dire che questo comune sentire tra élite e plebe investe una larga parte del panorama mondiale. Le ferite della grande guerra erano molto vistose in tutta Europa, non solo in Germania; anzi, basti pensare al Belgio, campo di battaglia e teatro dei maggiori scontri della guerra, nonché simbolo per eccellenza della guerra chimica, oppure a Reims, o a Verdun, luoghi di terribili carneficine e devastazioni, solo per citarne alcuni. Tutto questo fa si che, dopo il 1918, i miti, che la rivoluzione industriale aveva prodotto e che il pensiero positivista aveva propagandato, subiscono un duro colpo. Progresso e innovazione tecnica, che fino al 1914 erano sinonimo di speranza e di fiducia, divengono il simbolo di un fallimento, non solo momentaneo, di tutta la civiltà occidentale.

Tutta la produzione culturale di questo periodo è particolarmente ricca di opere che testimoniano questo nuovo modo di leggere la storia. Pensiamo a Oswald Spengler, con il suo “Tramonto dell’Occidente” (1918) a Josè Ortega, che nel 1930 pubblicherà un saggio dal titolo “La ribellione delle masse” oppure Julien Benda, il quale, nel 1927, scriverà un libro polemico, intitolato “Il tradimento dei Chierici”. La crisi del sistema democratico è, senza dubbio, il segno più visibile di quel tramonto occidentale, di cui parlava Spengler. Si unisce a questo coro lo stesso “Mito del XX secolo” di Alfred Rosenberg, con la sua lettura della Germania in chiave apocalittica.

Nel caso della nazione tedesca, bisogna dire che la cultura di Weimar era stata concepita fuori dalle scuole e dalle università e non riuscì mai a penetrare nell’estabilishment accademico, dove, fin dagli inizi, la stragrande maggioranza assunse una posizione antirepubblicana, come nota Walter Laqueur. È qui che si realizza, quindi, quell’alleanza temporanea tra le élite e la plebe, di cui parla Hanna Arendt: “più che dall’incondizionata fedeltà dei militanti dei movimenti totalitari e dell’appoggio popolare, goduto dai loro regimi, si rimane turbati dall’indiscussa attrazione che tali movimenti esercitano sulle élite […] per la comprensione dei movimenti totalitari, questa attrazione è una chiave altrettanto importante del loro rapporto coi rifiuti della società” (Hanna Arendt, “Le origini del totalitarismo, pp. 451-452).

Questa alleanza è vera anche per l’altro movimento antisistema, che condivide gran parte delle critiche, sopra riportate alla civiltà occidentale, ma di segno diverso, ovvero il movimento comunista. Questa fiducia nel sistema liberistico trionfante, soprattutto, nel mondo occidentale era già stata messa in discussione da Karl Marx, che aveva raccolto le sue riflessioni filosofico-politico-economiche nel corpus “Das Kapital” (1867-1883), poi sviluppate da Vladimir Il'ič Ul'janov in “Imperialismo. Fase suprema del capitalismo”, scritto a Zurigo nel 1916.

Pertanto, un discorso diverso andrebbe fatto, invece, per la Russia di Stalin. Prima di parlarne è bene analizzare la quantità di popolazione perduta dalla Russia tra il 1914 e il 1946. Da notare sono gli incredibili cali demografici registrati tra il 1911 e il 1920, in cui passa da 167 milioni di abitanti a 137 e l’altro calo tra il 1941 e il 1946 di 26 milioni di abitanti. È noto, inoltre, che, durante le grandi purghe (1936-1938) eliminò 800.000 avversari politici o presunti tali a cui si aggiunge il milione di morti nella guerra civile tra armata rossa e armata bianca. Gran parte della popolazione russa era stata, in breve, decimata e ridotta considerevolmente di numero.

Questo riferimento alla demografia riveste una certa importanza nel ragionamento, che la Arendt sviluppa sulla forte correlazione tra società di massa e totalitarismo. Infatti, il funzionamento del sistema stalinista, caratterizzate da frequenti purghe, le carestie indotte e altri metodi di decimazione della popolazione, miranti a piegare le masse, che comprendevano sia le classi sociali che le nazionalità, vi era bisogno di una sovrabbondante popolazione. A Stalin non sfuggì quello che Lenin aveva detto a proposito della Russia, ovvero della facilità con la quale era possibile il conseguimento del potere e dell’estrema difficoltà nel mantenerlo. 

I vecchi aristocratici vennero quasi tutti uccisi o mandati in esilio o nei Gulag, massacrati da tutte queste guerre ed epurazioni. Con Stalin, dunque, si ebbe una quasi completa massificazione dell’individuo e conseguente scomparsa delle classi sociali. Si completa così uno degli obbiettivi numero 1 del totalitarismo: l’estinzione delle classi sociali e l’idea stessa di esse con tutto ciò che ne consegue.

Ciò da ragione ad Hanna Arendt quando afferma che i movimenti totalitari tendono a organizzare le masse e non le classi, come i vecchi partiti.Ci sono stati altri uomini nella storia che provarono ad abolire il concetto di classe a favore di quello di massa come ad esempio Pol Pot.

L’eliminazione delle alternative di governo e la moltiplicazione dei centri di potere

Un’altra caratteristica comune ai vari regimi è quella dell’eliminazione fisica non solo degli oppositori politici, ma anche delle potenziali alternative di governo, che, pertanto, potevano abbattere il potere personale e assoluto dei leader. Sia Hitler che Stalin, ma anche gli stessi Enver Hoxha e Pol Pot, non appena ottennero il governo, si preoccuparono di eliminare, sin da subito, i loro ex compagni, che li avevano accompagnati nell’ascesa. Così il Führer nello stesso anno della sua ascesa al potere fece fuori il suo vecchio amico e capo delle Sturm Abteil (SA), Ernst Röhm e gran parte dei suoi seguaci nella “Notte dei lunghi coltelli”. Stalin, invece, dovette eliminare il suo più grande nemico interno, Lev Davidovič Bronštejn (Lev Trockij) e tutta la vecchia guardia leninista del partito bolscevico, come Lev Borisovič Kamenev e Grigorij Evseevič Zinov'ev e molti altri bolscevichi della prima ora.

Altro strumento di potere è quello della creazione e moltiplicazione degli apparati burocratici, soggetti a frequenti epurazioni. Questo serve a spezzettare competenze e potere dei burocrati, per impedirgli di assumere un’influenza, che possa minare quella dei leader di governo. Spesso, diversi enti si occupano di un’unica materia e questo li mette in competizione tra di loro. Nella Germania nazista, ad occuparsi dei “problemi della razza”, concorrevano tra di loro il ministero degli interni, l’organizzazione delle SS, il dipartimento della questione ebraica, fino ad arrivare, addirittura, al ministero dell’agricoltura. A questo si aggiunge una gerarchia continuamente fluttuante, con l’immissione di nuovi strati di dirigenti e funzionari, da rendere, praticamente, impossibile decidere in maniera definitiva su questioni di importanza fondamentale per il regime, facendo in modo che l’ultima parola l’avessero o il leader, o i suoi collaboratori, premiando a turno l’uno o l’altro ente o funzionario.

 

 Famiglia, educazione e repressione

 

Un aspetto molto importante riveste l’educazione e l’inquadramento della gioventù. Nel caso del Nazionalsocialismo, come è noto, sin da bambini, i giovani venivano inquadrati nella “gioventù hitleriana”. Nel caso dello Stalinismo, nel “Komsomol”. Per quanto riguarda lo Stalinismo albanese di Enver Hoxha, la politica della famiglia si fa particolarmente brutale. L’idea del regime che la distruzione delle strutture collettive delle famiglie patriarcali non porti a un individualismo di tipo occidentale, ma alla possibilità di plasmare, in senso Comunista, Collettivista e Nazionalista, coloro che sono liberati dai lacci tradizionali dei vincoli tradizionali e patriarcali.

Certamente, la famiglia patriarcale albanese costituiva un ambito di libertà privato, incontrollabile dallo stato e un legame sociale alternativo al regime. Il dittatore usa la scusa della lotta ai costumi retrogradi patriarcali per spezzare questi vincoli. Hoxha pensa a un “Uomo Nuovo” che, per nascere, deve “essere spogliato da tutte le sue radici”.

Con l’introduzione dell’ateismo di stato del 1967, ai genitori viene proibito di dare ai figli un nome religioso; all’interno della famiglia, i bambini, indottrinati nelle scuole e nelle organizzazioni di partito, diventano potenziali delatori nei confronti dei propri parenti. Non molto diversa è la situazione nella Russia Stalinista.

Nel caso del regime Nazista, il ruolo educativo della famiglia diventa assolutamente irrilevante “Il bambino tedesco non è altro che un Nazista in erba e nulla più. La scuola che frequenta è un’istituzione Nazista, l’organizzazione giovanile, della quale fa parte, è Nazista, i film, che gli è concesso vedere, sono Nazisti e la sua vita appartiene, incondizionatamente, allo stato Nazista […] La disgregazione della famiglia non è un prodotto secondario della dittatura Nazista, ma rappresenta l’adempimento di un compito, che il regime ha dovuto porsi per raggiungere il proprio traguardo: la conquista del mondo ad opera dei Nazisti” (Erika Mann, “La Scuola dei Barbari”, p.23,34).

Nel caso della società sovietica, in epoca staliniana, per distruggere tutti i legami sociali e famigliari, Stalin fa leva sulle epurazioni. Queste venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte dell’accusato tutta la cerchia dei parenti più stretti, degli amici, dei semplici conoscenti, ovvero quello che Hanna Arendt definisce “colpa per associazione”. “Appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici e finanche i parenti si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti, offrendo volontariamente delle informazioni per incriminarlo; mostrandosi così, fedeli cittadini dello stato comunista."

 

Conclusioni

 

Fin qui si è cercato di fare un’analisi e dare una definizione sulla natura e sulla forma dei regimi totalitari. Si è cercato di spiegare come il totalitarismo si differenzia dalle altre forme di stati autoritari e dittatoriali, per metodi e organizzazione del partito. Come detto in precedenza gli altri dittatori quali Salazar, Franco, Mussolini (etc.) non hanno potuto soverchiare in maniera completa e totale i diritti naturali dell’Uomo né gli altri corpi intermedi della società e non si sono riusciti a imporre in maniera totale sulle altre forme istituzionali, presenti negli altri paesi. Si spartivano, infatti, il potere con altre istituzioni quali Chiesa e monarchia. Un discorso simile si potrebbe fare per molti altre forme di fascismo dell’epoca.

Non c’è da stupirsi, quindi, se, ad esempio, dopo la morte di Franco e del suo “delfino”, Carrero Blanco, il re Juan Carlos di Borbone riuscì, attraverso una transizione morbida e senza scossoni a ripristinare la democrazia in Spagna; ma, ancora più esemplare è la vicenda del regime fascista italiano, quando il 25 Luglio del 1943, la Monarchia, di fronte alla disastrosa conduzione delle operazioni belliche, decide di rimuovere il “Duce” dal suo incarico di primo ministro. Tutto ciò sarebbe stato inimmaginabile per le vicende russa e tedesca.

Pertanto, questi stati, pur rimanendo delle forme di governo dittatoriali non si possono considerare dei totalitarismi, quanto piuttosto, come le definisce Hanna Arendt, delle “Dittature del partito unico”.

Non basta, infatti, che un solo partito o un solo uomo tenga le redini di tutta la nazione per considerarsi un regime simile a quello Nazista o Stalinista. Rimane sempre salda l’idea di appartenenza a una classe sociale, così come i vincoli familiari e religiosi.

Il totalitarismo è il frutto di una risposta alla crisi, innescata dalle nuove società di massa, all’interno della quale l’individuo si sente isolato e spaesato, dominato dall'incertezza, mentre vedeva crollare tutti quelli che erano stati dei pilastri della società ottocentesca. Bisogna “rimettere a posto il mondo” per “salvare l’Umanità”. E chi, se non un leader forte e carismatico, che prendesse su di sé tutte le responsabilità di scelta degli altri individui, poteva farlo? Senz'altro questa ha un suo grande fascino, qualcuno che dava delle risposte, anche se sbagliate. Tuttavia, questo processo avrebbe portato con sé sacrifici enormi sia in termini di vite umane, sia in termini di diritti. Bisogna che l’individuo rinunci, oltre che alla sua libertà, anche a tutti gli altri vincoli sociali e religiosi.

Oggi, spesso, ci si chiede se esistono ancora dei totalitarismi veri e propri come quelli di cui si è appena trattato. Non esattamente. Esistono, effettivamente, dei regimi speciali e autoritari come la Corea del Nord di Kim jong Un, ma i più diffusi sono le cosiddette “democrature”, quali quella Russa di Putin o la Turchia di Erdogan.

Questo termine, coniato per la prima volta dallo scrittore uruguayano Eduardo Galeano e ripreso dallo studioso americano, di origine indiana, Fareed Zakaria, si riferisce a quei governi che, forti del sostegno popolare, ritengono di avere un mandato superiore per agire in qualunque linea, oltre gli stessi limiti costituzionali. Si tratta di un modo di governare che soffoca alcune libertà fondamentali, come quella di parola o di assemblea o di organizzare enti non governativi, rendendo difficile qualsiasi tipo di opposizione. I leader solitamente accentrano il loro potere sul governo e sulla loro persona. Spesso alcuni preferiscono usare il termine Democrazia illiberale o democrazia totalitaria.

Questo modalità di governo è più simile ad una dittatura di tipo classico, dove la figura di una sola persona o di un solo partito politico accentra su di sé tutti i poteri, piuttosto che ad un regime totalitario.