Hitler e la filosofia.

Come noto, i due maggiori testi che fanno da punto di riferimento ideologico del nazionalsocialismo, sono quelli scritti dallo stesso Adolf Gustav Hitler (1889 – 1945), il Mein Kampf, - pubblicato in due volumi tra il 1924 e il 1926 (iniziato la prima stesura nella fortezza-prigione di Landsberg, nel sud ovest della Baviera - nel quale venne recluso dopo il famoso tentativo di colpo di Stato, passato alla Storia come Putsch della birreria di Monaco) e da Alfred Rosenberg (1893 – 1946), Il mito del XX secolo, pubblicato nel 1930 nel quale è esposta la weltanschauung nazista.

In particolare Rosenberg, assieme ad Hitler, diede vita a una potente macchina mitologica, all'interno della quale la filosofia ricopriva un ruolo importante per il valore culturale che la tradizione tedesca era in grado di offrire, realizzando fin dal tardo Settecento una (inesistente) continuità ideale tra la Grecia e la Germania. Persino l'illuminismo di Kant era macchiato di antisemitismo – in quanto gli ebrei erano rappresentati come una riserva di selvaggio irrazionale da civilizzare: a posteriori l'autorità dell'autore del «cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me» poteva dunque avallare l'antisemitismo di matrice scientifico-positivista e quello della tradizione teologica, persino diventare un argomento di difesa giudiziaria: racconta Hannah Arendt che Heichmann, a Gerusalemme, nel 1961 – dove era stato portato per rispondere dei suoi crimini – dichiarò durante l’interrogatorio condotto dalla polizia israeliana di “…aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere”; cioè potrà sostenere il dovere di obbedire agli ordini richiamandosi a un'interpretazione, davvero discutibile, dell'imperativo categorico (Hanna Arendt, la banalità del male, pp. 142 – 144).

Già questo aneddoto, ci fa capire come, dal punto di vista filosofico-culturale, Hitler sentisse il bisogno di legittimare il nazionalsocialismo inserendolo nella tradizione culturale tedesca. Ancora negli anni Venti e Trenta, infatti, la filosofia era un elemento chiave della cultura tedesca. Nel retaggio della nazione, essa è paragonabile a quello assunto dalla Costituzione negli Stati Uniti d’America. I filosofi erano delle vere e proprie celebrità e le loro azioni, la loro condotta le idee da essi propugnate avevano una grande influenza profonda sulla mentalità tedesca.

Un gruppo non piccolissimo di questi intellettuali, cominciarono a gravitare attorno ad Hitler, sia prima che dopo la presa del potere del partito nazionalsocialista (NSDAP, Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei). Tra questi non vi erano solo collaboratori legati al movimento hitleriano, ma anche pensatori che esercitarono la loro influenza in modo del tutto inconsapevole. Tutti erano inseriti nel solco di una tradizione comune che affondava le radici nella cultura tedesca. Da Nietzsche (che, contrariamente a quanto si pensi, ebbe un ruolo marginale nell’elaborazione filosofica della mitologia nazista), a Kant (come si è visto sopra), da Alfred Baumler a Martin Heidegger, etc.

Lo stesso Hitler, nel suo narcisismo, si immaginava di essere lui stesso un grande pensatore, fino a considerarsi – soprattutto a partire dal periodo della reclusione – il “leader filosofo” della Germania. Citava volentieri i padri fondatori della tradizione tedesca come Immanuel Kant, Arthur Schopenhauer ed esprimeva ammirazione per Friedrich Nietzsche ed altri ancora. Nella filosofia tedesca egli ritrovò anche tracce di antisemitismo e fece proprie certe idee sulla razza, sulla forza, sulla guerra, con lui legittimare il suo progetto di sopraffazione della Germania nei confronti degli altri Stati europei. 

 

La penetrazione nazista nelle università.

 

Alfred Rosenberg, Alfred Bäumler (1887 – 1968) – Boemo, studioso di cultura tedesca e di estetica e interprete di Nietzsche, aderente al partito nazista nel 1933 -, Ernst Krieck (1882 – 1947) - Professore di pedagogia nelle università di Francoforte e di Heidelberg, divenne il filosofo e il pedagogista del nazionalsocialismo. Considerato uno dei principali scienziati teorici del nazionalsocialismo - furono i maggiori artefici dell’infiltrazione nazista nelle università dal 1933 e gli esponenti di spicco di una metafisica identitaria a sfondo razzista: più che di filosofia si trattava di una «religione del sangue», una riscrittura fantastica della storia in chiave di mitologica della razza ariana (si veda, ad esempio, l’utilizzazione fatta da Alfred Rosenberg del mito di Atlantide nel suo, Mito del XX secolo).

 

L'antisemitismo, dalla rimozione della matrice giudaica dal cristianesimo alla teoria dell'incrocio degenerativo delle razze, alla critica economico-politica del complotto pluto-giudaico-massonico, fu il fulcro fondamentale di un’argomentazione che si presentava plausibile proprio a partire dal suo radicamento nella cultura pregressa per finire con il sostegno che ad essa veniva dato da uomini colti che ricoprivano cariche di prestigio.
L’odio per le idee liberali, pacifiste e individualiste si accompagnava alla promozione dell’esaltazione militaresca e di una comunità «organica» ( la Volksgemeinschaf, la “Comunità di popolo”) costruita su base etnica e nazionale, organizzata in chiave pedagogica attorno all’importanza della razza e della stirpe.

La pubblicazione più influente in tal senso fu il Manuale per il lavoro formativo nella Gioventù Hitleriana (1936), distribuita a sette milioni di giovani: rivolto alla fascia di età tra i quattordici e i diciotto anni, era obbligatorio in tutte le scuole.

Nei mesi seguenti la presa del potere del NSDAP – il 30 gennaio 1933 - oltre milleseicento studiosi furono allontanati dai loro incarichi. Si trattava soprattutto di accademici ebrei, costretti a ritirarsi a vita privata o ad andare in esilio, ma presto anche coloro che avevano legami ebraici di qualsiasi tipo – come il filosofo e psichiatra Karl Jaspers, sposato con un’ebrea – subirono la stessa sorte. I filosofi della “germanità” guidarono la crociata contro i libri degenerati, contro “la letteratura dell’Asfalto” e del “Nichilismo intellettuale” accusato di sradicare i tedeschi dal Volk e dalla comunità: dalle biblioteche e dalle librerie sparirono autori politici, Marx, Engels e Lukács; gli psicoanalisti, soprattutto Sigmund e Anna Freud; filosofi di origine ebraica come Husserl, Benjamin e gli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno, Marcuse, il già citato Benjamin e Horkheimer); teologi dissidenti come Paul Tillich. Scrittori come Tucholsky, romanziere e militante socialista, Schnitzler, medico e scrittore austriaco; i fratelli Heinrich e Thomas Mann, comunista il primo e liberale conservatore ma antinazista il secondo (che si troverà a essere, da Premio Nobel in esilio, il simbolo della cultura tedesca dell'emigrazione). E poi icone democratiche come Heinrich Heine o stranieri, come Hemingway.

 

Particolarmente controversa fu l’adesione al Partito nazista di Martin Heidegger, il quale assumendo ruoli cruciali nell'Università, rese indistinguibile la sua ontologia dall'adesione al nazismo, che avveniva anche prendendo le distanze dalla fenomenologia del suo maestro, di origini ebraiche, Husserl, che non si riprese più dal suo allontanamento e che non si spiegò mai il comportamento dell'allievo diletto


A portare i libri tra le fiamme nel maggio 1933 furono professori e studenti universitari, non le SS o le SA. A Berlino partecipò al rito lo stesso Joseph Goebbels, ministro nazista della Propaganda, che esaltò la «purificazione della cultura tedesca» di fronte a circa 40.000 persone. Presiedeva la manifestazione, Bäumler, titolare di una cattedra di Pedagogia nazista e autore della monografia nazisteggiante più importante su Nietzsche.

La promozione del nazionalsocialismo fu condotta attraverso la censura e la manipolazione dei programmi di ricerca, con strategie di cooptazione, promozione e finanziamento, da enti di ricerca come l'Istituto del Reich per la storia della nuova Germania, che includeva un Dipartimento di ricerca sulla questione ebraica: i progetti mostravano l’influenza negativa di Spinoza sulla storia della filosofia e criticavano l'«appropriazione ebraica» dell'hegelismo. Mentre il sistema concentrazionario entrava in funzione e ampliava il suo raggio d'azione, la ricerca antisemita procedeva con le inevitabili contese per le risorse e per il rango delle Università.

 

La weltanschauung nazionalsocialista.

 

Sono noti i concetti chiave con i quali il nazionalsocialismo si propone di sovvertire la storia del pensiero occidentale, per sostituirlo con un sistema di pensiero criminale che si propone come vera e propria “rivoluzione culturale nazista”. Questi sono: spazio vitale, sopravvivenza del più forte, divisione dell’umanità in uomini e sotto-uomini, sopraffazione come necessità della legge naturale. Vediamo ora come si sviluppa questo discorso che – nella mente dei nazisti – si presenta come una questione di vita o di morte per il popolo tedesco.

La narrazione e la visione nazista della Storia, infatti, è caratterizzata dall'angoscia biologica e da moniti apocalittici. Secondo questa “visione del mondo”, la razza germanica è, fin dalle sue origini, alienata e snaturata da influssi culturali e biologici proveniente dall'esterno, che hanno cominciato a distruggerla a poco a poco, destinandola alla scomparsa in tempi brevi.

Questa narrazione legge attraverso la biologia razziale tutti gli episodi della storia della “razza”, dalla Grecia antica fino all'odiata Repubblica di Weimar, passando per la fine dell’impero romano, l’evangelizzazione cristiana, l’Umanesimo, la Rivoluzione Francese, la “Grande Guerra”. Per i nazisti, quindi, è tempo di agire, e rapidamente, per evitare la distruzione della razza germanica.

I nazisti sono consapevoli di urtare e sconvolgere le coscienze dei loro cittadini, educate da secoli secondo i precetti cristiani, kantiani, umanisti e liberali. Nelle alte sfere del partito nazista e tra coloro che si ritenevano un’élite intellettuale ed un’avanguardia morale, ci si preoccupava di sradicare il “sentimentalismo”, l’”umanitarismo” e la “sdolcinatezza” dalle menti tedeschi; mentre nella macchina propagandista di Goebbels e nei comizi di Hitler, di Himmler e di Bormann venivano fustigati e ridicolizzati coloro che si riconoscevano in tali valori; “vittime della storia e dei propri nemici, che avevano fatto del tedesco medio un uomo indeciso e buono”

Per “rimettere a posto il mondo” occorre tornare alle origini, ad un pensiero sano della natura e dell’uomo così come esisteva nell’antichità germanica; e così come si ritrova in Kant purificato dalle scorie umanistiche e universalistiche ad opera di numerosi autori desiderosi di arruolare il grande filosofo tra gli illuministi cosmopoliti. Questo ritorno alle origini – anche in campo giuridico con la sostituzione del “diritto germanico” al Diritto Romano - permetterà di assicurare l’avvenire della razza e la procreazione dell’uomo germanico di pura stirpe ariana. La moralità stessa verrà rifondata per mezzo di categorie (divenute norme giuridiche ad opera del giurista Carl Schmitt, 1888 – 1985) che permetto l’azione, il dominio e lo sterminio.

Colpisce il constare che come le idee del nazismo non hanno avuto granché bisogno di essere diffuse o fatte proprie. Esse, infatti, di trovavano già presenti nella società tedesca, in particolare e nelle società occidentali in generale (si vedano i pensatori inglesi e francesi sostenitori dell’imperialismo e della supremazia della razza bianca). Ciò che va specificatamente attribuito ai nazionalsocialisti consiste (e non è poco) nella loro sistematizzazione e messa in pratica, in maniera rapida, brutale ed intransigente, a partire dal 1933 in Germania e dal 1939 nel resto dell’Europa da loro occupata.

Per il suo carattere di accozzaglia culturale, resa fortemente coerente dal postulato della razza, la “visione del mondo” nazista poteva essere fatta propria in modo diverso dagli individui più disparati. Il riferimento a molti elementi, faceva si che esistesse sempre una ragione per diventare nazista: il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo, l’espansione ad est, l'anticristianesimo, etc. Si poteva aderire al nazionalsocialismo per almeno una di queste ragioni prima che, a partire dal 1943, il conflitto volgesse a sfavore del Reich e la guerra dei nazisti diventasse la guerra di difesa della patria minacciata.

Il nazismo apparve come un corpus di idee assai convincenti agli occhi di molti (anche fuori dalla Germania), soprattutto a cavallo della fine degli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento. La politica dei nazionalsocialisti appariva convincente e seduttiva, anche perché appariva ai contemporanei, coronata da successo. Questo non significa che la maggioranza dei tedeschi adottarono le idee naziste: alla maggioranza dei tedeschi furono sufficienti il ritorno all'ordine sociale, l’uscita dalla crisi economica ed il benessere acquisito dalla politica sociale nazionalsocialista anche grande alla spogliazione degli ebrei e degli allogeni. I membri della “Comunità di popolo” venivano tutelati per la loro eccellenza razziale e per gli sfori compiuti per il servizio alla nazione. 

 

Il “Pensiero nordico”. Platone filosofo del nazionalsocialismo?

 

Si è visto come nella weltanschauung nazista predominasse un approccio biologico; il Logos sostituito dal Bios. In questo essi parteciparono pienamente a quell'approccio culturale caratterizzato dal sospetto verso la ragione - così legata ai valori dell’odiata Rivoluzione Francese, portatrice del cosmopolitismo liberale e dell’ideologia dei diritti dell’uomo – vicina al pensiero di Nietzsche e, paradossalmente a Sigmund Freud. Anch'essi, infatti, svilupparono un’esegesi psicofisica delle opere dello spirito, con la differenza sostanziale, però che ne Nietzsche, ne Freud legano l’espressione del pensiero o della creazione artistica ad un determinismo razziale.

In realtà, la concezione biologica e persino zoologica dell’uomo e della società era assai diffusa in Occidente fin dallo spettacolare successo dell’antropologo e naturalista inglese Charles Darwin (1809 – 1882).  I nazisti - e prima di loro i movimenti della destra radicale e pangermanista – resero questa tendenza centrale nel loro sistema di pensiero. L’idea che esistesse un pericolo biologico, un rischio di degenerazione e di estinzione per l’infiltrazione di elementi estranei alla razza germanica, fu resa più forte dalle conseguenze della Grande Guerra e dalla percezione che ne ebbe i contemporanei, ossessionati dal crollo demografico, dall’indebolimento biologico e dal temutissimo fenomeno dell’oligantropia. Nell’ideologia nazista, un grande ruolo lo ebbero i darwinisti tedeschi, la cui fama divenne immensa. Il razzismo nazionalsocialista, infatti, attraverso il rigido determinismo biologico, che propugnava, conduceva ad un approccio in chiave medica di ogni creazione umana, ad una sintomatologia delle opere della cultura.

In altre parole, il biologismo deterministico del razzismo nazista operò una riduzione dell’ideologia alla biologia.

Esso promuove una sorta di hegelismo pratico che vede in ogni produzione culturale non una reificazione dello spirito, ma una materializzazione di quel sangue di cui lo spirito non è che una manifestazione, un’espressione, un modo di essere. Il sangue (Blut) e le qualità di questo sangue sono l’unico fattore decisivo, mentre l’ambiente (Boden) consente o ritarda l’espressione delle sue potenzialità.

Ne è un esempio il rapporto con l’arte; quando i nazisti bollano un’opera artistica come “arte degenerata”, non usano questo aggettivo in maniera retorica, polemica o come semplice insulto, ma danno un giudizio “medico” più che negativo: l’arte condannato è frutto di sangue de-generato, cioè decaduto dal suo genere, dalla sua specie.

Questa interpretazione biologica e medica, questa lettura razziologica dell’arte, viene utilizzata anche per altre realtà culturali, come la filosofia greca. Un’opera filosofica non è espressione astratta di un’idealità assoluta; essa è figlia del proprio tempo, del sangue e del suolo (Blut und Boden). Ed in effetti, gli storici hanno evidenziato l’importanza data dai nazisti all’annessione della Grecia antica alla razza nordica. Secondo l’ideologia nazionalsocialista i Greci sono di razza germanico-nordica e le città greche furono fondate da tribù di contadini-soldati originarie del Nord. Questa operazione culturale consentì ai nazisti di rivendicare per conto di una razza altrimenti sprovvista di testimonianze di grandezza storica, il prestigio di una cultura che affascinava la borghesia tedesca fin dai tempi di Winckelmann. I Greci sono stati grandi, sublimi, poi sono scomparsi dalla grande scena della storia del mondo. Il destino dell’antica Grecia è quindi fonte di insegnamento anche per la nuova Germania hitleriana: la sua decadenza potrà essere evitata se dalla morte dei Greci come civiltà egemone verranno tratta i giusti insegnamenti. La loro weltanschauung è stata la condizione della loro ascesa, la sua alterazione quella della caduta.

La filosofia esprime così una condizione razziale: il logos altro non è che la voce dell’ethnos e del suo statuto razziale. Se la filosofia è vigorosa, decisionista, volitiva, esprime il vigore del sangue o la sua rigenerazione. Se al contrario è individualista, pessimista, esprime la sua degenerazione e la lenta discesa verso il pantano della mescolanza e del livellamento. Se è eroica e aristocratica, esprime la purezza del sangue nordico senza macchia. Se invece è egalitaria, democratica, tradisce la mescolanza di un sangue perduto a causa della compromissione con altre razze.

Questa concezione della storia e del pensiero spiega perché in tanti nel Terzo Reich parlino e si interessino alla Grecia ed alla filosofia greca: certamente Hitler nel Mein Kampf ed in numerosi discorsi; Alfred Rosenberg, nel Mito del XX secolo e Joseph Goebbles, ma anche Göring e Himmler.

Sotto l’attenta vigilanza del ministro della propaganda, specialisti di lettere classiche e storia antica si impegnarono nella scrittura di opuscoli e manuali scolastici di formazione ideologica il cui argomento sarà Sparta e Platone. In questi scritti, Platone occupa un posto privilegiato: quello di rappresentante massimo del pensiero nordico-germanico greco, punto di riferimento della weltanschauung ellenica che si dissolve a causa dell’alterazione e del rifiuto dell’ideale aristocratico da parte del pensiero della Stoà.

Platone viene presentato come un Kämpfer, un combattente che si batte per la rigenerazione e la sopravvivenza del suo popolo, uscito dissanguato e stremato dalla guerra del Peloponneso e minacciato di sovversione razziale dalla mescolanza con le razze asiatiche: emorragia di Sparta e Atene apre le vene greche al sangue straniero. A questo punto diventa facile un parallelo tra il filosofo ed il Führer: lo fa Joachim Bennes, altro specialista di Platone, in un opuscolo scritto nel 1933: La battaglia di Hitler e la Repubblica di Platone. Uno studio sul fondamento ideologico del movimento di liberazione nazionalsocialista.

Come Hitler, Platone è dunque un guerriero nordico che si batte per salvare il suo popolo dalla minaccia della scomparsa. Questa è la conclusione cui arrivava un altro grecista, Herbert Holtorf; mentre per un altro insigne accademico berlinese, lo storico della filosofia Hans Heyse, Platone è un modello valido per chiunque combatta per l’idea nazionalsocialista; il quale per rinnovare una città ateniese che era sul punto di sparire per la contaminazione con le razze semico -orientali, ha pensato e promosso un ordine politico rigorosamente razzista: appunto come sta facendo il Führer in Germania (siamo nel 1933).

Si potrebbero fare molti esempi su questo genere di revival di studi su Platone. Ne citeremo ancora un altro perché particolarmente significativo, anche lo spessore dell’autore. Si tratta di Richard Darrè, ingegnere agronomo, capo dell’Ufficio centrale della razza e della colonizzazione delle SS. Nell’opera che egli dedica a Platone ne fa il padre dell’eugenetica, colui che ha collegato acutamente idealismo e selezionismo: E’ stato Platone a dare alla parola “idea” il suo senso filosofico, è stato lui a divenire con la sua dottrina il primo fondato dell’idealismo[…] e ad attribuire al regno delle idee un valore assoluto, al di sopra tutto; e sempre Platone, nel suo essere idealista, fu portato a concepire l’idea di selezione.

Dunque il grande filosofo ateniese è impegnato nella lotta per salvare il popolo minacciato dall’immigrazione asiatico-semita che sommerge l’esangue Atene alla fine del V secolo, e della mescolanza razziale da essa provocata. Finché era rimasto puramente nordico, lo spirito greco aveva trovato come espressione la filosofia di Platone. L’infiltrazione del sangue asiatico determinò una degenerazione dei corpi e, in conseguenza ad essa, una decadenza degli spiriti che insieme caratterizzarono l’infelice passaggio dall’ellenicità all’ellenismo; dall’esclusivismo della città-Stato al cosmopolitismo dell’impero alessandrino. Questa grecità degenerata a tal punto da non essere più degna del suo nome ebbe quale espressione ideale non più Platone ma gli stoici. Questa è la ricostruzione della decadenza del pensiero nordico dei greci, fatta dal filosofo e psichiatra Kurt Hildebrandt (1881 – 1966), nella sua opera Lo Stato e la razza, pubblicato nel 1928. Il quale si spinge fino a fare del grande filosofo il “padre dell’eugenetica”.

Per Hildebrandt infatti, “Platone non era un utopista, ma sviluppava un reale sapere della realtà e della necessità” naturali. Le misure segregative, selezioniste ed eugeniche raccomandate nella Repubblica sono citate a titolo di esempio di una perfetta politica razzista. Platone non è crudele quando dà leggi di questo tipo alla sua città ideale: è soltanto uno spirito conseguente che abbraccia senza esitazioni le leggi ed i disegni della “legge naturale”, che vietano ogni infrazione anti selettiva, al corretto fluire della vita naturale, cha la vita sociale non deve ostacolare con alcun artificio. “Platone ha capito perfettamente che ogni ostacolo posto a ciò che oggi viene definito come una selezione naturale” può risultare vantaggioso per l’individuo, che viene così curato e risparmiato, ma “nuoce al popolo (volk) considerato nel suo insieme”. Il benessere, la felicità o la sopravvivenza dell’individuo importano poco al legislatore, al Führer del popolo nordico: il grande filosofo “considera sempre la totalità (del popolo), distaccandosi dunque dal caso individuale”.

Per i nazisti quindi, Platone è un “maestro per la nostra epoca”, visto che persino alla “biologia moderna non sarebbe facile proporre delle leggi più adatte alla selezione dei migliori delle leggi di Platone.”

In questa lettura del filosofo ateniese è del tutto evidente che chiunque voglia edificare uno Stato organico, cioè uno Stato-corpo che si fondi contemporaneamente sull’”unità data dal sangue” e su una rigida gerarchizzazione razziale e funzionale della comunità del popolo, deve seguire gli insegnamenti di Platone.

 

Kant e il nazionalsocialismo.

 

Tornando al già citato aneddoto sul presunto kantismo di Heichmann riportato da Hannah Arendt ne La banalità del male, la filosofa tedesca, nota come a proposito dei “crimini legalizzati dallo stato” commessi il solerte funzionario nazista aveva distorto la formula kantiana dell’imperativo categorico, facendola divenire: “agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese”, ovvero, come suonava la definizione che dell’“imperativo categorico nel Terzo Reich” aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: “agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe”. Rispondendo alle domande del giudice Raveh, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principî kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più “padrone delle proprie azioni”, che non poteva far nulla per “cambiare le cose”.

Kant rientrava dunque nelle letture della formazione ideologica delle SS? In effetti il nome del filosofo di Königsberg ricorre spesso nelle pubblicazioni naziste, come è incontestabile che i nazisti si richiamino a lui come ogni autore o tradizione culturale il cui semplice nome possa servire da legittimazione al nazionalsocialismo. In questo “paese dei poeti e dei pensatori”, come ama affermare Goebbels, non può mancare Kant nel discorso culturale del regime: egli, infatti, figura tra gli “eroi dello spirito” della cultura germanica, assieme a Mozart, Bach, Hegel, Leibniz,etc. Si citano questi autori sfiorandoli, senza entrare nelle loro opere. Come fa il giurista Roland Freisler, in uno dei suoi saggi teorici sul rinnovamento nazionalsocialista del diritto e del pensiero giuridico: “La comunità (Gemeinschaft) contiene in sé come postulato tutte le esigenze che, nella concezione tedesca, sostengono la comunità e rendono la vita della persona degna di essere vissuta dentro questa comunità medesima:

  • L’imperativo categorico di Kant;
  • Il dovere fichtiano;
  • La massima federiciana: essere il primo servitore dello Stato;
  • La concezione clausewitziana dell’essenza militare tedesca;
  • Il principio nazionalsocialista: l’interesse comune prevale sull’interesse privato.

In questo elenco ciò che prevale è la cultura del Settecento; ma non quello dell’Illuminismo, ma quello prussiano tutto ascetismo ed abnegazione.

Per separare Kant dall’Aufklärung, dall’Illuminismo tedesco, di cui è il massimo esponente, bisognava porre l’accento solo sull'imperativo categorico, facendolo diventare uno schema retorico gradito quando si trattava di dettare una norma di portata generale. In realtà, quest’uso schematico dell’imperativo morale kantiano era divenuto popolare già nella Germania dell’Otto-Novecento, divenendo una ragion pratica meccanica, privata della sua radice riflessiva e delle sue condizioni di validità: “Agisci sempre in modo che…”; poco importava quello che seguiva. Nulla di strano, allora se Eichmann si richiama a Kant, come ogni buon tedesco, sul dovere di obbedienza.

 

Il pensiero di Immanuel Kant (1724 – 1804)

 

Sarà, quindi, utile, richiamare l’autentico pensiero del filosofo tedesco, per comprendere quale sviamento il nazismo operò per annettere Kant nel suo sistema di “pensiero nordico”.

Come noto, si distinguono in Kant due periodi: quello cosiddetto precritico, dal 1746 al 1780 e quello critico, dal 1781 al 1804, caratterizzato dalle tre Critiche (della Ragion pura, della Ragion pratica, 1788 e del Giudizio, 1790).

In Critica della Ragion pura (1781), egli si chiede quali siano la natura e i limiti della conoscenza umana. Benché la struttura di tale opera sia più complessa, è scolasticamente utile tripartirla in Estetica trascendentale (sulla sensazione), Analitica trascendentale (sul pensiero legittimo) e Dialettica trascendentale (sul pensiero illegittimo).

Per Kant è trascendentale ciò che trascende le distinzioni – cioè che va oltre - in cui si suddivide a) la realtà (per la Scolastica medioevale) o b) la conoscenza (per Kant). Ciò che trascende lae divisioni è ciò che è “esteso a tutto”, a tutto l'esistente (per la Scolastica: e così abbiamo come trascendentali l'essere, il vero, il bene e l'uno), o a tutto il conoscibile (per Kant).

Molto vicino al termine trascendentale è il termine puro: esso è equivalente a a-priori: è ciò che non è ricavato dai sensi, ma presente alla struttura conoscitiva del soggetto. In base alla rivoluzione copernicana ciò che è posto dal soggetto si estende a ogni conoscibile (dunque è trascendentale, almeno al suo livello).

 La “rivoluzione copernicana gnoseologica”. È lo stesso Kant a chiamare rivoluzione copernicana la svolta del pensiero con cui, analogamente a come Copernico aveva radicalmente riformulato i termini del problema astronomico, egli pensava di aver radicalmente (e definitivamente) reimpostato il problema gnoseologico: non il soggetto ruota attorno all'oggetto, ma al contrario l'oggetto ruota attorno al soggetto, si piega docilmente alle sue leggi e alle sue strutture conoscitive.

Perciò non dobbiamo più chiederci se le nostre idee siano conformi alle cose, perché sono le cose che si conformano alle nostre forme conoscitive a-priori: “Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra conoscenza, sono andati a vuoto. È venuto il momento di tentare una buona volta, nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall'ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi sulla nostra conoscenza; ciò si accorda meglio con la auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, la quale affermi qualcosa nei loro riguardi prima che ci vengano dati.” (Critica alla ragion pura).

Ma è in Critica alla ragion pratica (1788) che Immanuel Kant affronta il tema della morale.

La legge morale in Kant ha tre principali caratteristiche: è autonoma, formale e categorica.

L’autonomia della legge morale. L’etica, secondo Kant, può essere eteronoma o autonoma.

 

Nel primo caso l'etica dipende da qualcosa di altro, dalla metafisica, per il razionalismo, o dall'esperienza, per l'empirismo. Dalla metafisica: dato che sappiamo che la realtà è fatta in un certo modo (metafisica) ne consegue che dobbiamo comportarci in un certo modo; il dover essere consegue all'essere; sappiamo che esiste lo spirituale (Dio e l'anima) e che esso è superiore al materiale, quindi dobbiamo comportarci privilegiando i valori spirituali, che ad esso ci conducono, così da godere poi della felicità. Oppure dall'esperienza: ci comportiamo in quel modo che ci procura il massimo del piacere, come attestato appunto dall'esperienza.

Una tale concezione però, per Kant, è insostenibile. Nel caso della metafisica perché, essa è un sapere illegittimo[1], e quindi non può fungere da fondamento della morale. Nel caso dell'esperienza perché così facendo si priva la morale del carattere di assolutezza, di universalità e necessità, che invece le deve competere. Non resta dunque altra strada che quella di dire che l'etica è autonoma, non si appoggia ad altro da sé, ma ha in sé stessa la forza per auto fondarsi;

 

La categoricità della legge morale. Se la morale è autonoma, il suo imperativo non potrà più essere ipotetico, ossia “fà così se...” (“se vuoi essere felice”, nel caso del razionalismo metafisico, o “se vuoi raggiungere il piacere o l'utilità”, nel caso dell'empirismo), ma dovrà essere categorico: “fà così perché devi”.

Non si può infatti sospendere l'azione morale a un fine ad essa esterno, e che costituirebbe comunque un che di traballante. Essa è assoluta, auto fondantesi;

 

Il formalismo della legge morale. Non poggiando più sulla metafisica la legge morale non potrà più avere dei contenuti specifici, ma sarà, in qualche modo vuota. Non darà indicazioni precise, contenutistiche, su ciò che debba essere fatto o evitato, ma si limiterà a fornire dei criteri assolutamente generali, universali, ossia fornirà delle massime, tre massime:

  1. agisci esclusivamente secondo la massima che possa nel contempo divenire universale;
  2. agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona come nella persona dell'altro, sempre come un fine e mai come un mezzo;
  3. agisci in modo che la volontà possa, in forza della sua massima, considerare sé stessa come legislatrice universale.

I postulati della legge morale. L'incondizionato, il noumeno, non può essere raggiunto per via teoretica, ma viene postulato dalla morale: è appunto il tema dei postulati. Il dato primo è la presenza in noi della legge morale, che come abbiamo visto, si impone senza appoggiarsi su niente di (a lei) esterno. Ma una volta essendosi dato questo fattore, è possibile scoprirne come delle implicazioni, cioè i postulati. Perché la nostra azione morale sia pienamente compiuta abbiamo bisogno di pensare che siano veri questi postulati. Essi sono: l’esistenza di Dio; l’immortalità dell’anima e La libertà del volere. Quest’ultimo – pur essendo il postulato su cui Kant meno si sofferma, tanto gli appare ovvio – è quello che ci interessa ai fini del nostro discorso: per meritare un premio o un castigo occorra essere liberi di scegliere il bene o il male.

 

Lo stravolgimento del pensiero kantiano.

 

L’imperativo morale kantiano morale trovò, dunque, larga applicazione nella Germania nazionalsocialista, desiderosa di legittimarsi anche sul piano etico. Ecco la forma dell’imperativo che il già citato Richard Walther Darrè propone come giuramento dei membri del Reichsbauernstand, la corporazione dei contadini del Reich: “Agisci da tedesco sempre in modo tale che il tuo popolo possa erigerti a modello.” I suoi membre sono poi invitati a giurare non sulle leggi esistenti ma “[…] sull’uomo che ci ha insegnato a lottare per le leggi del sangue e che ci ha guidati in questa lotta, Adolf Hitler”. Abbiamo visto che in Kant non si tratta di agire da “tedesco” ma da uomo, da essere umano universale e non ridotto alla particolarità della propria nazionalità.

Ma la formulazione più celebre dell’imperativo categorico nazista, è senz’altro da attribuire al giurista Hans Frank, già avvocato del NSDAP e a partire dal 1933 Presidente dell’Accademia del Diritto Tedesco ed in seguito governatore generale della Polonia occupata. In un saggio di diritto pubblico e scienza politica, pubblicato nel 1942, scrive: “L’imperativo categorico dell’azione del Terzo Reich è: agisci in modo che il Führer, se giungesse a conoscenza del tuo atto, lo approverebbe.”

Nel leggere altri saggi di questo tenore, si può giungere alla conclusione che l’operazione culturale nazionalsocialista consiste nel sostituire all’universalismo di Kant, il concetto di Volk  e di Comunità di popolo.

In un altro tribunale, diverso da quello che condanna il “kantiano” Eichmann, troviamo il professore straordinario dell’Università di Monaco, Kurt Huber (1893 – 1943), condannato a morte dal Volksgerichtshoff (il Tribunale nazista del popolo) il 13 luglio 1943 durante il processo alla Rosa Bianca. Davanti ai giudici Huber giustifica la propria attività di resistenza citando Kant e il suo imperativo categorico (“Senza Kant non avrei potuto.”).

 

 

 

[1] Il sapere illegittimo è identificato da Kant con la metafisica. Questo non è un sapere valido perché pretende di conoscere quel noumeno, quell'incondizionato, che è invece irraggiungibile. Solo il fenomeno è oggetto di una conoscenza legittima, poiché il soggetto umano condiziona sempre l'oggetto conosciuto, non possiamo conoscere invece l'incondizionato, la cosa-in-sé, l'essere.